In un caldo pomeriggio di luglio, dopo svariati tentativi, riusciamo a metterci finalmente in contatto con Manuel Agnelli, voce degli Afterhours e artista dalle mille sfaccettature: cantante, musicista, produttore ma soprattutto scrittore di testi che riescono ad arrivare dritti all’animo di chi ascolta i pezzi della sua band.
Spaziando dall’ultimo lavoro del gruppo (“Padania” uscito il 17 aprile n.d.r.), al rapporto con gli Stati Uniti, alla partecipazione ai titoli di testa di “Faccia d’angelo”, al coinvolgimento in un concerto per i terremotati dell’Emilia a Ferrara il 22 luglio, ne esce un’intervista che, come sempre accade quando si ha a che fare con Manuel Agnelli, lancia un gran numero di spunti di riflessione e regala una piacevole sensazione di appagamento e “pienezza” dal punto di vista mentale, quella “pienezza” che oggi molto spesso manca lasciando uno spazio vuoto ed inconsapevole che corrisponde alla metafora geografica utilizzata nell’ultimo album degli Afterhours.
Ascolta l’intervista in formato audio
[youtube id=”j5RUcVEgArc” width=”600″ height=”90″]
Veronica: Comincio subito chiedendoti dell’ultimo lavoro degli Afterhours, “Padania”, visto che siete in pieno Summer tour. Hai affermato che “Costruire per distruggere” può essere un po’ il pezzo chiave per capire il disco ma volevo sapere direttamente da te se ci puoi spiegare qual è il concept che sta dietro a questo album e una tua definizione di Padania.
Manuel: È un tentativo di affresco sulla situazione che c’è adesso attorno a noi in Italia, non solo in Italia è vero ma soprattutto in Italia, che vuole rappresentare la nostra società, i comportamenti, le emozioni e le tensioni che provano le persone in questo momento storico. È quindi sicuramente un disco che parla anche di altri, non solo di noi stessi, e “Padania” è semplicemente una metafora geografica per dare una personalità a questi concetti. Non volevamo raccontare né della Lega né del Nord Italia in particolare però è vero che un certo tipo di situazioni, di distorsioni e di tensioni sociali è più facile evidenziarli e sottolinearli se dai loro una personalità e diciamo che la mancanza di punti di riferimento morali e la disperazione delle persone che non sanno il nome del proprio male, che si alzano alla mattina pensando che andare a lavorare e fare carriera sia l’unico scopo nella vita e che non vogliono pensare ad altro perché intanto non hanno tempo e poi perché fa paura…beh io credo che la Padania rappresenti bene questi concetti. Volevamo chiaramente scegliere un titolo che fosse provocatorio, non è che facciamo gli angioletti. I titoli non sono solo lì a spiegare i contenuti ma sono lì anche per attirare l’attenzione e per fomentare la discussione che per noi è fondamentale, se un gruppo rock non è pericoloso e non da spunti di riflessione secondo me è inutile.

AFTERHOURS – Padania
V: Diciamo pure che voi riuscite ormai da anni a svolgere questo compito (ride n.d.g.). Volevo chiederti poi qualcosa a proposito della copertina di “Padania” che mi ha colpito molto; cosa c’è dietro alla scelta di quest’immagine, di questo cancello sulla neve.
M: In realtà volevamo realizzare delle foto intorno alla casa dei miei genitori che adesso vivono in campagna ma tutte le immagini ci sono sembrate troppo rurali e per questo troppo grottesche. Non volevamo fare un disco contro la sagra della salamella, nel senso che non volevamo fare un disco contro un tipo di cultura, non ce ne fregava niente, volevamo rappresentare un certo tipo di situazione che era appunto il vuoto culturale, il vuoto sociale e la mancanza di punti di riferimento e anche il panico che ne deriva e allora abbiamo provato a fare delle foto che però erano tutte un po’ troppo caratterizzate e portavano tutte da quell’altra parte, la parte dei cumuli di paglia e delle cascine. Invece questa foto è fatta in Francia (ride n.d.g.) e ti sorprende perché rispecchia perfettamente l’atmosfera che volevamo dare dal punto di vista del carattere regionale, perché sembra fatta dietro casa mia, ma che poi invece è pulita e non ci sono elementi così rurali che possono richiamare l’attenzione su delle cose un po’ più grottesche. È una foto pulita dove non c’è niente aldilà di questo cancello ed è quello che volevamo esprimere noi, fare un disco sul niente che c’è adesso. Tra l’altro è un niente molto nebuloso, neanche un niente chiaro; e poi è una copertina che ci piaceva molto perché dopo le nostre precedenti copertine tutte un po’ concettuali ci piaceva l’idea di tornare un po’ all’immagine evocativa, a una di quelle copertine che magari metti sul davanzale, sul comodino e te la guardi mentre ascolti il disco no?
V: Sempre a proposito del disco, si tratta di un lavoro che è interamente autoprodotto da te e da Tommaso Colliva e per la prima volta proprio interamente appoggiato ad un progetto indipendente; cosa significa e cosa rappresenta questo step, che differenza c’è dal lavorare per una major?
M: Ti correggo leggermente, non è per la prima volta appoggiato a un’etichetta indipendente perché in realtà ho fatto anni e anni con la Vox Pop come socio proprio dell’etichetta e poi alla Mescal, che è comunque un’etichetta indipendente, non come socio ma come artista, però è la produzione di un nostro marchio proprio degli Afterhours e in questo caso sì è la prima volta che un disco è interamente prodotto soltanto da noi all’interno del gruppo. Si tratta di un’esigenza che si è venuta a determinare semplicemente per motivi professionali; ti dico la verità, dal punto di vista artistico non abbiamo mai avuto problemi neppure con le major, hanno sempre capito che eravamo un progetto da lasciare in libertà e non abbiamo mai dovuto discutere dei contenuti del disco, delle sonorità…è vero poi che quando qualcuno investe tanti soldi sulle tue produzioni tu comunque psicologicamente anche se non vuoi devi rendere conto in un modo o nell’altro e sei all’interno di un certo tipo di pressione che poi diventa anche pratica, non soltanto immaginaria, dove le vendite devono poi chiaramente giustificare quello che è stato investito, per cui sono poi più le cose che fai per vendere il disco e il concetto che il disco deve vendere, concetto che poi è superato. Per noi il disco è importantissimo ma è un biglietto da visita, in questo momento, per una situazione che deve diventare più un progetto musicale che una band; gli Afterhours ambiscono a diventare un progetto anche multimediale, a collaborare come abbiamo fatto in passato con il teatro, con il cinema e con altre cose che sono magari extra-artistiche se vogliamo e questo con una major non si poteva fare perché comunque loro sono una catena di montaggio. Non è tanto la volontà delle persone ma il fatto che questa catena di montaggio cambi le tempistiche degli ingranaggi per te che sei troppo piccolo in ogni caso per loro e quindi non si adattava a noi. Io non volevo fare guerre di bandiera com’è stato detto, non me ne frega niente di questa cosa sinceramente; ho sempre trovato dei grandi professionisti anche all’interno delle major però è vero, ed è un dato di fatto, che le major sono molto vecchie nel modo di pensare tutto intorno alla musica, dalla produzione alla promozione, per cui proprio non ci interessavano da nessun punto di vista…oddio quello economico se devo essere sincero potrebbe anche andare eh (ride n.d.g.), però fa niente dai, ne facciamo a meno.
V: Il discorso vale sicuramente soprattutto per una persona come te abituata a scrivere quando se lo sente veramente, non a comando…
M: Sì sicuramente questa è una cosa in più, il fatto di scegliersi i tempi è un altro motivo molto importante perché se ti scegli le tempistiche hai la garanzia di far uscire qualcosa che è veramente quello che volevi fare e invece quando qualcuno investe tanti soldi devi rispettare le tempistiche di produzione, ed è giusto che sia così, non sto criticando questa cosa…è semplicemente un limite in più che noi possiamo permetterci di non avere.
V: Prima di questo disco siete passati per l’ennesima volta per gli Stati Uniti, è un legame, quello che avete con questa terra, che dura sin dalle vostre origini; com’è adesso il rapporto con gli States, com’è suonare lì per una band italiana come gli Afterhours, cosa trasmette?
M: Eh, è una figata! (ride n.d.g.) Credo fosse il nono tour ed è stato un tour un po’ atipico perché non abbiamo fatto proprio dei concerti, solo l’ultima tappa a Los Angeles è stato un concerto vero e proprio di rock’n’roll in un club, in realtà le altre erano performance. Abbiamo fatto commento sonoro a questo gruppo di crash dance a Chicago (Chicago Dance Crash, compagnia di danza contemporanea fusion style fondata da Mark Hackman, n.d.r.), abbiamo partecipato a un contest di slam poetry che sono praticamente queste gare di poesia performativa dove vai a fare una performance su delle cose che hai scritto tu e lo abbiamo fatto recitando in italiano, è stata una cosa fantastica! Poi siamo andati alla Womb Gallery dei Flaming Lips a Oklahoma City a fare delle performance musicali improvvisate e ci siamo fermati in diversi studi di registrazione sulla strada,
posti anche quasi semiabbandonati veramente storici dove hanno suonato Bob Dylan, George Harrison, Tom Petty, personaggi di un bel calibro, per cui è stato molto atipico però ci hanno riempito davvero tantissimo a livello di stimoli, non tanto dal punto di vista del genere musicale ma dal punto di vista della libertà espressiva. Quando vai incontro alla storia del rock e senti tante cose diverse tutte molto emozionanti, molto efficaci, alla fine comunque ne sei contaminato, non c’è niente da fare, e soprattutto l’atmosfera; quando si va negli Stati Uniti tutti spingono verso l’alto, la gente spinge verso l’alto, per cui se tu hai delle qualità non sono invidiosi, oppure lo sono ma in maniera molto produttiva, cioè “devo fare meglio di te”, non tentano di sminuirti ma vogliono costruire, mentre qui in Italia purtroppo è sempre un tentativo di sminuire a tutti i costi, di smontare, di trovare delle cose sporche dietro ai progetti, c’è una cultura del sospetto, una cultura del minimizzare le cose purtroppo e l’atmosfera ne risente in maniera molto pesante. Andare in giro per gli Stati Uniti è esaltante non perché siamo dei provinciali a cui piace suonare a New York…anche per quello, anche perché siamo dei provinciali a cui piace suonare a New York, però soprattutto
perché è l’atmosfera che è diversa e ti diverti di più, non c’è niente da fare, ti esalti di più e ti diverti
di più e respiri una libertà intellettuale strana perché noi abbiamo un’idea dell’America come un paese di tonti, maleducati e in realtà non è così, col cavolo! Siamo degli arroganti vecchi e decrepiti qua in Europa perché la verità è che è un Paese che ha una libertà intellettuale altissima e soprattutto dal punto di vista espressivo questo si riflette nelle arti contemporanee con delle cose spesso grottesche ma altrettanto spesso geniali.
V: Sta venendo la pelle d’oca a me che sono qui a sentirti parlare così!
M: (Ride n.d.g.) Comprati un biglietto presto! Le agenzie del turismo mi danno la percentuale!
V: Tornando purtroppo, si fa per dire, nel nostro Paese, nel disco c’è la traccia “La tempesta è in arrivo” che è stata utilizzata per i titoli di testa della miniserie “Faccia d’angelo”; che rapporto hai tu con i media? Ammetto che mi ha lasciata un po’ sorpresa l’essermi trovata gli Afterhours nei titoli di testa, com’è nata quest’idea?
M: Noi abbiamo un rapporto molto buono da quando li abbiamo sdrammatizzati, nel senso che
chiaramente i media sono sempre demonizzati da un certo ambito culturale, spesso sono demonizzati perché questo ambito culturale viene snobbato dai media stessi quindi scatta il “non ci stiamo e quindi ne parliamo male”, “loro non ci invitano alle loro feste e noi non li invitiamo alle nostre”, ma la verità è che il media è un mezzo, è un mezzo e lo devi saper usare. Se non lo sai usare vieni fagocitato, vieni usato e sputacchiato fuori e se lo sai usare serve a realizzare le tue cose; la televisione è un mezzo, la radio è un mezzo. In Italia sono usati molto male però alla fine non è il mezzo il problema ma il come viene usato, per cui quando incontro delle persone che hanno talento e che esprimono delle cose ad un certo livello proprio di qualità professionale è solo bello collaborarci. Nel caso di questa miniserie avevamo Elio Germano, che è un amico ma che è anche un attore che noi stimiamo tantissimo, a fare un po’ da garanzia. C’era uno scritto, una stesura della sceneggiatura che ci piaceva davvero tantissimo, scritta benissimo, ci piaceva tantissimo la storia e poi c’era la qualità. La qualità delle produzioni di Sky a livello proprio di miniserie, soprattutto
quelle a puntate, la “Banda della Magliana” è un esempio su tutte, sono altissime, sono superiori a quelle della televisione di Stato, a quelle di Mediaset e sono superiori anche a un certo cinema italiano, purtroppo, per cui pensavamo, anche quando abbiamo visto il premontato, di fare parte di una situazione comunque che esprimeva un certo tipo di qualità, anche se poi il montato definitivo è stato edulcorato non poco, però comunque è una serie di livello se vogliamo. È vero che il personaggio di Maniero poi centrava tantissimo anche con Padania, perché Maniero è un vincente, è uno che ha vinto tutto, è uno che è diventato il padrone del suo ambiente, anche se è un ambiente di malavitosi, però è diventato il più grande gangster della storia in Italia, eppure è una persona che ha perso totalmente a livello personale perché ha perso tutti gli affetti, ha perso tutte le cose a cui era legato, tutte le cose per cui combatteva. Alla fine ha ottenuto tutti i risultati pratici che voleva, però è il tipico vincente, la tipica persona di successo che può essere protagonista di Padania perché è un perdente interiore e quindi ci piaceva partecipare a questa cosa perché era un elemento in più da raccontare; non siamo i primi a farlo, penso a Springsteen per fare un esempio banale che però mi è servito molto per raccontare “Padania” perché ha usato anche lui metafore geografiche e storie di criminali e di personaggi così impopolari da un certo punto di vista, per raccontare invece un po’ il disagio interiore che sente la gente.
V: Scelta azzeccata direi, lo dico poi perché è storia delle mie parti, da dove vengo io…
M: Esatto, ma poi so che è stato anche molto criticato perché è molto edulcorata e lui ne esce come una persona molto capace, però è anche vero che la serie non è la sua storia. La serie è ispirata alla sua storia ma è una serie romanticizzata che comunque è totalmente di fantasia da un certo punto di
vista, vuole raccontare di quella zona lì e della mafia del Brenta di quel periodo lì ma in una maniera molto generica, tanto è vero che lui non è mai citato con il suo nome, non è una roba storica ecco e credo che comunque siano riusciti a rappresentare bene il desiderio di una persona che era rimasta tagliata fuori dalla società perché di umili origini e che ha scelto di prendere la strada sbagliata per riuscire ad ottenere degli obiettivi. Lui aveva delle capacità e molto grandi e purtroppo in Italia questa non è l’unica situazione; se pensi anche l’origine della mafia in generale all’inizio era per riscattare una situazione sociale di persone che si sentivano schiacciate dall’autorità centrale e purtroppo poi queste cose sono degenerate in maniera terribile.
V: Citando un po’ il titolo “Costruire per distruggere”, mi aggancio a qualcosa di positivo nel negativo, voi contribuirete invece a ricostruire ciò che è stato distrutto dal terremoto dell’Emilia con un concerto che si terrà a Ferrara il 22 luglio per riportare l’attenzione sulle zone colpite dal sisma e per contribuire a raccogliere fondi per ricostruire i luoghi d’arte che sono andati distrutti; che cosa spinge un gruppo ad utilizzare la propria musica e le proprie capacità per cause come questa, che cosa scatta dentro?
M: Oggi su Repubblica (Link all’articolo del 9 luglio 2012 di Luis Sepúlveda su Repubblica) ho letto un articolo scritto da Sepúlveda dove lui fa una distinzione fra andare a partecipare a un salotto letterario per discutere dell’ennesimo libro scritto da un deficiente qualsiasi che si paragona a Proust piuttosto che parlare invece della situazione dei minatori spagnoli nelle Asturie e lui dice che essere scrittore e artista intellettuale in questo momento vuol dire raccontare la realtà, raccontare le cose che stanno succedendo e non può voler dire nient’altro, è stufo dello sfoggio artistico, dello sfoggio letterario e quindi dell’estetica fine a se stessa, non gli interessa questa cosa, gli interessa raccontare la realtà, essere il mezzo per raccontare la realtà. Questa è una delle cose che non solo approvo ma che penso profondamente, penso che qualsiasi tipo di artista in questo momento storico in particolare possa fare tantissimo cercando di raccontare la realtà, che può essere raccontata in tanti modi, con le storie ma anche soltanto con le sensazioni, i sentimenti, le tensioni e il rock’n’roll ti offre questa grandissima libertà, non sei obbligato a raccontare delle storie, puoi esprimerti anche per versi gutturali, movimenti grotteschi e suoni completamente dissonanti, è una forma di musica animale quasi, è meravigliosa per quello anche e chiaramente per me in questo momento la funzione non è tanto, lo ripeto ancora una volta, quella di bandiera, è semplicemente una cosa che faccio da cittadino per sentirmi comunque parte del mondo che è una delle spinte che da un anno a questa parte sento molto forte. Ho sempre desiderato essere parte delle persone e per come l’ho fatto, per la sensibilità che ho, per il carattere che ho, ho sempre distrutto questa volontà, sono sempre andato contro la mia vera volontà che è appunto quella di stare insieme alle persone, non contro le persone.
Stare insieme alle persone spesso ti porta a fare delle cose impopolari anche, devo essere sincero in questo; magari fai delle cose impopolari però la sincerità con cui poi fai queste cose ti da la forza di riuscire a sentirti parte di qualcosa. Voglio essere sincero fino in fondo, la raccolta di fondi a livello economico conta molto poco, noi quando abbiamo fatto il pezzo “Domani” per l’Abruzzo abbiamo raccolto un milione duecentomila euro, non bruscolini, ma sono bruscolini all’interno di una ricostruzione, sono pochissimi soldi. Se sono destinati a un obiettivo in particolare come in quel caso il teatro e il conservatorio dell’Aquila allora possono essere molto utili, ma se sono buttati all’interno di un calderone generico per ricostruire i cavalcavia, che comunque sono necessari, piuttosto che le rotonde, piuttosto che i centri urbani, allora sono veramente bruscolini. Quindi non sarà il risultato economico a determinare il successo di questa iniziativa qua, sarà la partecipazione delle persone per rendere l’idea che appunto l’Emilia non è lasciata a sé, le persone non sono da sole, che continuano ad essere seguite, che l’attenzione è alta su quello che sta succedendo e che c’è una condivisione delle situazioni negative proprio a livello interiore, a livello umano e questo può aiutare tanto le persone a essere determinate, ad avere la forza di reagire. Questo è molto più importante dei soldi che si raccoglieranno perché saranno comunque pochissimi, anche se la cosa andrà benissimo, rispetto a quello che serve, per cui sono molto più importanti i gesti da questo punto di vista e che la gente ci venga secondo me può essere molto molto importante.
V: Infatti una delle prime paure che si riscontrano in questi casi nelle persone che rilasciano le
proprie testimonianze e interviste non è tanto quella del “oddio rimarrò senza soldi come farò” ma è
proprio quella del “non abbandonateci, non dimenticateci”…
M: Assolutamente sì.
V: Sempre all’interno di “Padania”, continuando a parlare citando le tue tracce, c’è “Io so chi
sono”; chi è Manuel Agnelli? Io ti seguo come fan da quand’ero più piccola, non sono grandissima
è vero ma ti ho sempre seguito, ed è sempre stato difficile definirti perché nella tua carriera sei tutto,
sei musicista, cantante, produttore, hai scritto un libro (Il meraviglioso tubetto, n.d.g.)…chi sei?
Come ti definisci in realtà, se ti definisci in qualche modo…
M: Mah, è molto difficile spiegare una persona con delle definizioni, soprattutto quando uno vuole sfuggire alle definizioni per cui sarebbe il primo matto no? Alla fine mi lamento delle definizioni, dei luoghi comuni che si raccontano su di me e poi io stesso contribuisco a crearli…
V: Allora cerco di dribblarti chiedendoti che rapporto hai con la scrittura, visto che ho nominato il
libro, ci sarà mai un seguito, qualche altro lavoro?
M: Guarda io non ho intenzione di scrivere per come mi chiedi tu, per me la scrittura è una cosa magica, io sono già uno scrittore, uno scrittore di testi che per me non è una cosa deteriore, è un’altra forma di scrittura che ha secondo me una sua dignità, un suo spessore e anche una sua difficoltà tecnica non indifferente perché incastrare dei racconti all’interno di una musica è un conto ma delle liriche che abbiano comunque delle sonorità, che seguano una linea melodica, è molto difficile, per cui non sento di fare una cosa minore, non mi sento minore come scrittore perché scrivo dei testi, anzi. Il fatto di scrivere narrativa o prosa o cose di questo genere non è un mio desiderio pubblico, è una cosa che faccio in privato e non per forza deve diventare una parte della mia professionalità, anche perché penso che il musicista che scrive verrebbe sempre additato, sembra una scimmia in una gabbia alla fine e sinceramente non me ne frega niente di avere dei responsi su tutto quello che faccio. Ho scelto la musica come mio veicolo verso l’esterno ed è la parte professionale che ho e sulla quale accetto le critiche, accetto le polemiche, accetto i complimenti, è la mia parte pubblica. Il resto è privato e non ho questa necessità di renderlo pubblico ecco.
V: Mi è piaciuta moltissimo questa risposta e ti ringrazio. Buttandola sul ridere, ti paragonano ancora a Trent Reznor, a proposito dei luoghi comuni di cui parlavi prima…
M: Ultimamente mi paragonano di più a Piton, quello di Harry Potter…
V: Non volevo chiedertelo ma l’hai tirato fuori tu…
M: (Ride n.d.g.) Mi sento molto più legato a Piton che a Trent Reznor da tutti i punti di vista…
V: Bene, io avrei concluso qui, ho cercato di essere breve ma con te è sempre un piacere parlare, ti ringrazio anche a livello personale, per me è stata un’esperienza molto importante e ti ringrazio a nome di Rockon…hai qualcosa che vorresti dire a chi segue e legge Rockon.it?
M: No no, non voglio lanciare massime (ride n.d.g.)…se potete veniteci a vedere dal vivo perché credo che in questo momento siamo molto felici di fare quello che facciamo e per ora si trasmette molto bene sul palco. I concerti che abbiamo fatto finora sono sempre stati molto emozionanti, molto belli e…niente, se volete condividere questa cosa secondo me penso che, un po’ presuntuosamente, ne valga la pena.
Una lunga conversazione, o meglio un lungo flusso di pensieri da una delle menti musicali più sensibili della musica contemporanea italiana, Manuel Agnelli sa sempre come entrare nelle viscere del nostro tempo estrapolandone ombre e luci. Che gli Afterhours siano contenti della loro ultima produzione lo si percepisce in prima persona durante i loro live lunghi e intensi come quello di venerdì scorso 6 luglio in occasione del Festival di Radio Sherwood qui a Padova (clicca qui per vedere le foto).
Un po’ perché parlare con lui è stato come realizzare un sogno tirato fuori da uno dei mille cassetti chiusi durante quella che è stata la mia adolescenza, un po’ perché ascoltarlo mentre ti parla degli States è come partire per un viaggio stando seduti sulla propria sedia, a me la pelle d’oca è venuta sin dal primo minuto e spero che l’effetto si sia ripercosso anche su di voi.
Veronica “Beast” Drago
