“I concerti dei Joe Victor a Villa Ada … Mi sento vecchio!” Inizia con un flashback la mia conversazione con Gabriele Mencacci Amalfitano o più semplicemente Amalfitano qualche giorno prima dell’uscita odierna del suo ultimo lavoro, Tienimi La Mano, Diva! prodotto da Ivan A. Rossi e Francesco Bianconi (che segna anche i cori di quattro canzoni e duetta con Gabriele in ben due pezzi) per Flamingo Management e il cui tour di presentazione ha gia segnato diversi sold out tra Roma e Milano. E proprio un ricordo, una nostalgia, andiamo ad approfondire con Gabriele, di questo si tinge l’intero lavoro ed essere di Amalfitano e del suo progetto musicale, sin da quando portava un altro nome, un po’ più anglo-simpatizzante.
Perché Amalfitano, in otto tracce di album confenziona un perfetto ritorno al passato, al sound coinvolgente (come restare fermi su quella bomba di Fosforo?) e non “seduto” come direbbe lui, alla Ivan Graziani, Battisti, Battiato, ma anche tanto alla Venditti, che a volte sembra di riconoscere nella sua voce. Un lavoro che mai stanca o fa pensare a un fumetto chiuso in un regionalismo culturale senza possibilita di esportazione. No, perché quello a cui aspira Amalfitano, e con questo disco lo fa superando, oltre che a una pandemia, le aspirazioni stesse de Il Disco Di Palermo del 2022 (anche se dovrebbe essere 2019, ma lo leggerete dopo), è una musica eterna. Un rock americano folk che ha fatto la storia e che trova una sua necessaria identità nel cantautorato italiano a cui lui guarda incessantemente con amore, invidia, piacere e probabilmente anche un pizzico di fisiologico odio (che non possiamo amare così tanto qualcosa senza detestarla un po’). Perché Amalfitano ha anche una sua identità a Roma, in quell’area architettonicamente e culturalmente delineata chiamata Parioli, e nella pratica ancora esotica per i milanesi dei Piano Bar.
Di questo, e di un sacco di altre cose e storie, soprattutto la sua, per arrivare a questo ultimo lavoro, ho parlato con Amalfitano in una mezz’ora di telefonata. Ma ci sarei potuta rimanere ore. Perché Gabriele mi riporta con la mente a un posto che c’è, non c’e’ mai stato e non c’è più, ovvero Roma, quando si tratta di guardare dentro la sua capacità di fare musica. E come ogni volta, mi scende una lacrimuccia.
Mi commuovo anche perché lo seguivo da quando era i Joe Victor e faceva, facevano qualcosa che non esisteva ancora come tipologia nello scenario musicale italiano ed era totalmente in controtendenza rispetto ai loro colleghi contemporaneanei (stiamo parlando di un momento storico in cui era esploso Calcutta come fenomeno nazionalpopolare, ancora prima dei sofismi acchiappa-milanesi del terzo disco). Ma perché Amalfitano racconta una storia, romana, a volte non sense, ma che è comune a moltissimi.
Fare musica in un quartiere senza musica
Tipo, se studi/lavori/vivi a Roma e diciamo ritrovi i tuoi natali sotto il Tevere, è difficile che tu non abbia mai sperimentato un Piano Bar. Una cosa un po’ tamarra si, ma che ha un suo grandissimo appeal oltre che tradizione. È una specie di passaggio formativo: sapere tutte le canzoni italiane, saperle adattare a una pianola, saperle cantare in coro mentre di base sbocci e ti connetti a un’era mentale che non è la tua ma genera un senso di comunità e condivisione che risolve molte delle tue personali crisi identitarie. Soprattutto nelle vite dei singoli e infatti Amalfitano ce ne ha fatto una canzone, Ti Amo Piano Bar, personalmente la sua preferita, ma che ci spiega anche la sua storia.
“Ho campato una vita in un quartiere di Roma dove non si conosceva la musica (ai Parioli, ndr). Uno non sceglie dove nasce e sono vissuti per la mia adolescenza qui, e sono ancora qui, in un quartiere abbastanza borghese, basta vedere i miei vicini che mi vedono tornare sempre un po’ più tardi la sera….” Ci ride su. “Io invece ho passato tutta la mia adolescenza ad ascoltare la musica che mi piaceva, gli anni 60,70,80, anche i 90, il rock, americano e inglese. La solita roba che si ascoltavano tutti, ma qui non s’ascoltava nessuno! Ho fatto una cosa che è comune a tutti i ragazzi dell’emisfero occidentale, qui, da solo. È una cosa strana. Invece mi portavano tutti i weekend al piano bar. Perché il mio gruppo di amici non andava ai concerti.
Ma io al liceo mi trovavo tutte le sere dei weekend a sorbirmi tutti i cantanti della storia della musica italiana, da Modugno agli stornelli romani fino a Battisti… Tutti in un unico polpettone, cantati da questi cantanti dalla voce anonima, perché poi questi cantanti da piano bar sono bravissimi, hanno questa voce anonima (che si adatta a tutto)….” Insomma una condanna, o una insormontabile condanna “Una notte ero a un piano bar, ci sono stato tutta la notte e la mattina sono tornato e ho pensato che dovevo buttarla giù questa canzone, dovevo scriverla. La conosco troppo bene. Ci sono nato e cresciuto dentro questo cazzo di piano bar!”
Evadere tutto, da pecora nera
Non bisogna sorprendersi poi se uno cerca di evadere. E Amalfitano cercava di evare i limiti del suo quartiere fatto di non conoscenza dei suoi idoli, ma senza per questo rinnegarlo. Una pecora nera, così si definisce Gabriele, non ha senso di esistere se non in un contesto in cui può essere liberamente nera. E così nascono i Joe Victor.
“I Joe Victor sono il mio sogno privato, contornato dal mondo dove sono cresciuto. Ma avevo i miei piccoli sogni… Erano i miei sogni di Rock n roll…come diceva Ligabue” e qui apre una digressione, che lui Ligabue non l’ha mai particolarmente amato ma anche qui i suoi amici, quelli del Piano Bar, invece si (“ma dicevo perché non vi ascoltate i Velvet Underground? Tenco? Anche Vasco?”) e nonostante questo la sopracitata canzone aiutava Amalfitano a identificarsi. “Nella mia stanza volevo fare un gruppo che si ispirava alle cose che piacevano a me, tutta la mappazza del rock classico folk americano. I Joe Victor sono questo”.
E poi l’evento, quasi fortuito, tra pecore nere. “Poi ho trovato un ragazzo, che stava nel mio quartiere, a fine liceo, che sarà il tastierista dei Joe Victor, anche lui una pecora nera, incontrato al bar, a prendere il caffè. Ho scoperto cosi, per caso, che suonava. Abbiamo cominciato a suonare da me il giorno stesso”.
Fin troppo facile. “Ma a diciott’anni la vita è facilissima!”. È dopo che inizia il dramma. Saltiamo al liceo. “Poi mi sono trasferito a Londra per due anni e li mi sn fatto una scorpacciata di tutto quello che era il movimento (2006-2007), folk e neo folk, c’era poi tutto quel mondo che girava intorno a MIA, all’Electro pop. E poi c era, anche se un po’ in discesa ma sempre di gran attualità, tutto il mondo dell’ indie dagli Strokes e Libertines. Era una situazione figa. Vivevo questa situazione londinese, in una zona abbastanza bella, artisticamente intrigante. Poi sono tornato in Italia mi sono iscritto in università, e mi sono detto che era il momento. Facciamo una band.”
Essere o non essere indie, ma anche una band
E li i Joe Victor, o meglio Amalfitano segna il suo stile. “Pecora nera nei Parioli, pecora nera nella scena musicale. Credo sia un marchio quello, che ti porti a vita.” Anche rispetto a tutto l’indie romano che veniva fuori in quel periodo, dentro cui Gabriele è completamente immerso. “Ricordo ancora questa serata, Decathlon, che organizzavano a Le Mura. La prima edizione vedeva Tommaso Paradiso, Margherita Vicario, Calcutta, Giovanni Truppi, noi i Joe Victor, un altra band che poi si è sciolta subito e un altro nomone che ora non mi viene ma fai i palazzetti. Eravamo tutti nella stessa serata, dovevamo cantare due pezzi a testa”. Lo dice: per due anni i Joe Victor sono stati contornati dall’indie Italiano senza mai farsi la domanda su come canalizzare questo movimento e momento (a dire il vero, lui se l’era posti come tema). Però si sono divertiti, lui sicuramente. Però hanno avuto un tempo. E come tutti i grandi amori, vivono al prova del tempo.
“Mi sono reso conto i 30 anni sono un momento spesso di ragionamento su tantissimi temi. Purtroppo credo che sia la nostra generazione e anche quella prima un po’ viziata perché si soliti ci si arriva a venti a capire chi sei.. a 30 già è un po’ tardi. Io ho capito il mio modo di fare musica sarà sempre quello, da dove sono nati i miei ascolti, quello dei Joe Victor e quello del Disco di Palermo e anche qui (sul nuovo disco ndr) è la stessa cosa. Possono cambiare i protagonisti ma non l’approccio, non potrò mai fare una cosa “seduta”, non è il mio”.
E come sottolinea Gabriele “I Joe Victor sono nati da un sogno mio, con persone che probabilmente non volevano neanche fare questo nella vita ma come del resto spesso accade a quell’eta’”. Per lui e’ fisiologico venire, andare e lasciare andare. Soprattutto se sei in una band. C’è una selezione naturale che porta a cercare e trovare professionisti. “All’inizio il primo tastierista non voleva neanche suonare, quindi la prima band la feci con un mio amico che voleva fare l’architetto, e un altro che faceva il vigile urbano. E il primo a mollare fu il vigile urbano: aveva un figlio in arrivo, un lavoro, viveva un un luogo diametralmente opposto al mio…” E così via. Alla fine “Ti trovi a dover fare un disco con persone che conosci da sei mesi. Però poi viene meno il concetto di band”. E ha senso, dice, se fai i tour mondiali. Altrimenti è insostenibile, sotto tutti i punti.
Essere o non essere un artista, in italiano
“Avevo già delle canzoni in italiano, scritte tra un tour un concerto un disco e un altro… e poi ero contornato da persone che cantavano in italiano, era naturale” Nel 2019, all’abbandono di un altro membro della band Amalfitano dice basta, se ne va a Palermo a incidere con il batterista quello che è davvero l’omonimo disco. “Che doveva uscire a marzo 2020 ma poi è arrivata la pandemia eh …”
A metà telefonata sono quasi arrivata a pensare che sia una candid camera, considerato il numero di imprevisti sulla strada di Amalfitano ma non per questo non sono interessata a capire come è passato da un disco che suonava come una bomba di vita, usciti a frammenti durante una pandemia in cui tutti, tutti, hanno scritto e presentato album di riflessioni, a un altra bomba di vita. “Uno si mette anche molto in gioco quando fa un disco. Qualsiasi cosa artistica che diventa pubblica vuole una bella grinta, ma se quella grinta me la spezzetti in tre anni.. insomma è dura!”
Ma il Disco di Palermo segna una buonissima prova e attira anche produttori importanti e appassionati. “Bianconi, quando me l’hanno presentato ci siamo subito trovati perché lui è così. C’è tutta quell’aura da intellettuale si, ma lui è una rockstar cioè fatta e finita. E’ uno che la musica glie piace a mena’.” Ce lo vedo. “Ma anche gli altri dei Baustelle sono così, anche Rachele (Bastreghi) ha sentito i pezzi e gli sono piaciuti”. Si trova molto in linea con quello che è l’ambiente e le suggestioni del modo di fare rock nel Nord Italia.
Ma chi cavolo è Francesca Bianchi?
E cosi si arriva a Tienimi La Mano, Diva! Questo album di storie e nomi e persone che esistono o meno. Come Francesca Bianchi, track del nuovo disco condita di reference alla musica italiana, leggi: Rettore. “Francesca Bianchi chi è? Non esiste!”
Come dice Amalfitano parla di quello che “oggi si dice poliamore, una volta si chiamava orgia. Sai quelle situazioni lì in cui a un certo punto perdi la tua individualita’, non sei più Gabriele Amalfitano, o Mario rossi, sei Francesca Bianchi. Cambi te stesso”. Ma il vero tema rimane il nome, uscito un po’ così. Fermo poi realizzare che così si chiamava un amica di Bianconi, e una stalker dell’etichetta musicale: “ci disse, non vi ho risposto perché ho una stalker che si chiama Francesca Bianchi e pensavo me l avesse mandata lei.. l alteo giorno ero a Torino a suonare e ho chiesto se c era qualcuno che si chiama Francesca Bianchi… È una sorta di Mario rossi al femminile!”.
Che dire, se non: ma quanto assomigliano certe opere ai proprio artisti? Nella voracità delle otto tracce di Tienimi La Mano, Diva! C’è tutta l’assurda dolce ironica follia di una persona che vive una Roma stanca, come dice lui, un palcoscenico di vecchie glorie calato in una saudade contemporanea. E che lascia sempre un po’ incerti su quello che sarà. O ci fa ammettere i nostri limiti.
“A Roma io sono nato e cresciuto in un quartiere che non è Roma. Conosco molto bene le vie di Roma ma non conosco la romanità. Quando vado a Testaccio o Trastevere o Monteverde o in centro, quella romanità più verace, che poi viene stereotipata… mi sorprende sempre, non la conosco bene.” Un luogo da osservatori.
“Sono certo che Roma rimarra’ sempre una città cantautoriale ed è credo sia fisiologico. Roma tornerà una scena fra dieci anni, quando vorrà. E’ una città a cui piace avere una dimensione più comfort, non ama la violenza nella sua musica, ha sempre amato fae sognare o commuovere. Milano, Torino hanno voglia anche di un po’ di violenza. Roma non lo sarà mai”.
E così è il nostro. “Io faccio parte del mio quartiere che non ha mai prodotto nessun tipo di musica, se non piano bar, non riesco a inserirmi in una categoria, ma se Roma è cantautoriale, io sono cantautoriale”.