Articolo di Umberto Scaramozzino (Torino) – Foto di Davide Merli (Milano)
Che bella band i Tapir!, sestetto londinese che a inizio anno ha pubblicato un album d’esordio impossibile da imbrigliare in un genere di riferimento. Ci si affanna, come sempre, a dare un contesto e perciò si parla di indie-folk e di art pop, ma facendo un torto alle sfumature progressive, post-rock e – perché no? – jazz. C’è un po’ di tutto nella proposta dei Tapir, che fin dal debutto vanno a differenziarsi da qualsiasi altra band emergente, creando un percorso parallelo che non può e non deve passare inosservato.
Si tratta di un concerto breve, ma estremamente intenso. La durata risente dei limiti imposti dal repertorio appena sbocciato con “The Pilgrim, Their God And The King Of My Decrepit Mountain”. Un’opera in tre atti, dove ogni atto corrisponde di fatto a un EP e in cui la struttura narrativa assume un ruolo di primaria importanza. Quella dei Tapir! non è circoscrivibile nel concetto di “lore”, tanto cara a band di successo come Ghost, Twenty One Pilots, Sleep Token e tanti altri. Non si tratta di creare engagement con il pubblico, ma è un’ambizione quasi letteraria. Come detto più volte nelle primissime interviste, i Tapir hanno l’obiettivo di diventare qualcosa in più di una semplice band che va in tour a fare concerti. Non solo c’è cura e attenzione verso l’album in quanto forma d’arte, ma anche verso un contenuto articolato, sorprendente.

Dal vivo non è semplicissimo cogliere tutte queste sfumature d’intenti, ma ne emergono altre, più concrete e immediate. La musica dei Tapir è elevata. Viene suonata con tecnica sopraffina e si erge su atmosfere difficilmente replicabili. In parole povere: l’esperienza che deriva dall’ascoltare questo collettivo di ottimi musicisti dal vivo è abbastanza unica. Forse a risentirne è un po’ l’intrattenimento puro, quello che effettivamente allo sPAZIO211 di Torino si intravede appena, in favore invece di un ascolto di pura contemplazione. Sul piccolo ma accogliente palco del club di via Cigna, isola felice tra la nebbia che avvolge il capoluogo piemontese così come quasi tutto il nord-est dello Stivale, i Tapir raccontano la straordinaria favola del loro “The Pilgrim”, il ramingo scarlatto che vaga nei luoghi più sinistri della natura: foreste oscure, mari tempestosi e montagne sulle quali si celano le creature più improbabili.

Inspiegabilmente, la band è convinta di essere al suo primo concerto assoluto in Italia, dimenticando l’apparizione estiva in Sicilia, all’Ypsigrock di Castelbuono oppure considerando solo le date da headliner. In tal senso sì: quella di Torino è la prima serata di cui i Tapir sono esclusivi protagonisti nel nostro Paese, e per questo non sorprende un pizzico di emozione che viene esplicitamente condivisa con il pubblico. Il tastierista Will McCrossan si prende il compito di scambiare con la platea due parole, che servono a strappare quel velo invisibile che restava a difesa del fragile mondo dei Tapir. Da lì in poi, musicisti e fruitori diventano un tutt’uno, all’interno una bella che può esplodere solo se sollecitata dall’interno.

Mentre su disco la narrazione è intrigante e spinge all’indagine, la capillarità della musica in sede live sovrasta persino il racconto e culla gli spettatori in un viaggio sonoro nel quale perdersi. Ike Gray è un chitarrista eccellente, ma a colpire è soprattutto la sua inusuale espressività canora. Il lavoro in studio forse non gli rende giustizia: la sua voce ha così tante sfaccettature che l’ora di concerto non basta a rivelarle tutte. Per questo a fine serata si resta con la voglia di averne ancora, di scoprire di più di quel mondo letterario, di sentire le loro altre intuizioni melodiche e capire fin dove la loro creatività può spingersi.
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