In effetti è la prima domanda che mi viene in mente “come mai Bono che sta presentando il suo libro dall’America a tutta Europa non farà tappa qui da noi?”
Possibile che nessuno in nessun modo si sia adoperato per riservare, diciamo così, un teatro per quella che forse è la star internazionale più importante nel mondo della musica in assoluto? Possibile che Bono degli U2, la sua vita, i suoi racconti, la sua sofferenza e la sua forza, la storia di come sono nati gli U2 e l’amore grandissimo nei confronti della moglie, musa e spalla da sempre non desti interesse nel nostro paese a chi organizza questi eventi? Eppure, il libro è il più venduto nelle classifiche italiane. Forse ci stiamo perdendo qualcosa, forse ci stiamo perdendo noi e nemmeno lo sappiamo, forse mi sono persa io. Ma tant’è che consapevoli del fatto che Bono non sarebbe venuto in Italia, decido di andare a Londra.
Ma partiamo da molto lontano un po’ per spiegare che non sempre la passione che hai deve stare fuori dal lavoro, anzi più passione c’è più in un certo senso si abbattono tutti gli ostacoli, di quelli che ti mettono i paletti e di quelli che fanno finta di stringerti le mani. La passione è forse tutto nella vita, certo accompagnata da un minimo di razionalità essenziale ma non ci saranno cose lasciate indietro che non si vorranno più vedere se la passione è stata utilizzata fino all’ultimo.
La passione serve a non avere rimorsi e rimpianti.
La mia passione per gli U2 è datata dai tempi del Liceo. Io e la mia compagna di banco allora avevo praticamente scavato il tavolo per mesi affinché venisse fuori U2 intagliato dal tavolo. Ragazzi, una roba e un lavoro di una dedizione assoluta. Poi seguì un episodio più o meno grottesco ma che cambiò profondamente la mia vita. Durante gli esami del quinto, il prof di allora di matematica mi portò con un voto bassissimo rispetto alla media dei voti molto alti che avevo nelle altre materie. Così il preside di commissione di allora chiese ai miei professori di farmi portare un lavoro extra, per diciamo così levare quel chiodo che la matematica mi stava infliggendo senza che a me poi in realtà importasse molto. Il mio prof di inglese che conosceva le mie passioni, uscendo da un un’aula dove si erano riuniti per parlare di questa cosa, in due parole mi aprì il mondo “tu sei brava a scrivere e non ti piace la musica pure, non ti piacciono gli U2? E scrivi qualcosa“. Difficilmente dimenticherò quel giorno, perché quello è stato IL momento.
Nel tornare a casa con una Olivetti (che bei tempi ancora) iniziai una specie di romanzo, piccolo eh che aveva il titolo di East Link, che in pratica è la scritta che appare nel video di Pride e quindi buttai giù tutta questa storia di un giornalista semi fallito a cui avevo dato nomi, che ora non ricordo perfettamente ma riguardavano Irlanda e Berlino. Ogni capitolo finiva con un pezzo di una canzone degli U2. Insomma, tutto c’entrava con gli U2 e tutto riuscì a tirarmi fuori da questo problema dell’avere un voto più alto di cui a me non è che importasse molto. Andò così, andò che per me gli U2 rappresentavano non solo un gruppo che nell’età adolescenziale era più arrabbiato di me, ma non in maniera negativa, costruttiva, del voler fare e uscire da quella realtà soffocante ma iniziarono a rappresentare il fatto che per me la prima volta ero consapevole che forse potevo scrivere, forse sapevo scrivere in un qualche modo e che la musica avrebbe avuto un ruolo centrale, fondamentale, destabilizzante e di amore eterno per tutti gli anni a seguire.
Poi tralascio il viaggio a Rathfarnham a casa del bassista degli U2, perché se ci penso ora, avevo 19 anni eh, che per arrivare lì per fortuna la gente del posto mi ha aiutata, e poi per farmi aprire ho iniziato a lanciare pietre alle telecamere del cancello, sotto la pioggia. Eh, sì mi hanno aperto, eh no non mi hanno arrestata. Anzi.
Questo preambolo lunghissimo per farvi capire che non sarò distaccata da questo libro che vi racconterò e non sarò distaccata dalla serata di Londra, non perché già da persone non coinvolte lo spettacolo e il libro non meritino lodi ma in realtà è come se io vi scrivessi la storia di qualcuno, di un gruppo che mi ha dato l’unica certezza ai tempi del Liceo, per cui parlarvi di Surrender e del perché andrebbe letto e riletto e perché noi ci meritiamo soprattutto oggi questa storia a tratti dolorosa sì, ma bellissima anche, piena di spunti, di risalite e discese rapidissime, dove 4 ragazzi di Dublino, non sono mai venuti meno a quello che per loro è forse più importante della musica: la loro amicizia.
Surrender è un libro di 648 pagine, scritto benissimo, perché Bono da scrittore vale tantissimo, più di qualche pluripremiato cantante considerato scrittore. E poi è un libro di forza, è forte, ha una tenacia, una grinta, una voglia disperata di uscire dal recinto che la sentirete tutta. Di un uomo stanco per certi versi, di un uomo coraggioso, un leone, che non si è mai lasciato addomesticare dal circuito che per molti lo ha già intrappolato ma nella realtà Bono fa insieme agli U2, ormai da tempo, quello che vuole, anzi quello che sente. Il libro parte in maniera un po’ scioccante ma in realtà è tipico di Bono, andare dalla debolezza alla forza per quello che dicevo prima dell’essere costruttivo. Inizia parlando dell’intervento al cuore da ciò che lo ha spaventato, da questa operazione raccontata così dettagliatamente fino a quella mancanza di respiro a cui lui fa riferimento di continuo. E poi uno strano viaggio, avanti e indietro e nel presente, il futuro, le cose volute, quelle desiderate profondamente, la presenza del cibo in scatola, che rappresentato la perdita della figura materna a soli 14 anni.
Leggendo Surrender dovreste stare attenti al rapporto di Bono con il cibo, perché se della morte della madre racconta ma in realtà ne parla poco ancora, questa morte però è continuamente presente in tutti i momenti tristi che lui racconta con rabbia (come ha fatto nelle canzoni). Così quando inizia il periodo dei cibi in scatola e quelli che suo fratello portava dall’aeroporto da riscaldare poi, in quel momento Bono racconta di quanto dolore ci sia nell’aprire una scatoletta e preparare la tavola per altri due uomini perché la presenza di quella scatola fredda, la presenza costante di quei cibi da riscaldare non facevano altro che ricordargli l’assenza della madre, di cui a casa nessuno parlava. Questa è la mancanza d’aria di cui parla all’inizio Bono raccontando del suo intervento al cuore. “Tre maschi che affrontano il dolore non parlandone mai”, quando Bono scrive questo concetto è un po’ riassunto e principio fondamentale, la base delle sue canzoni, ovvero che Bono parlerà tantissimo, quasi sempre, di questo dolore, tutto quello che non si è concesso in quel momento, durante la adolescenza se lo sarebbe concesso dopo, componendo le sue canzoni, salendo su un palco. Così tra un bussare porta a porta per far sentire le loro prime incisione, e il non arrendersi mai, gli anni del Liceo, l’amore per Ali, e di quelli che lui stesso definisce “miracolosi fratelli”. Magari voi non siete interessati al dolore della perdita della madre, perché lo diceva anche De André “il dolore degli altri è dolore a metà”, al rapporto conflittuale e d’amore con il padre, amore che per quanto si sentisse non è mai stato espresso abbastanza, all’Irlanda che in quegli anni lì era il fulcro delle bombe, del sangue e del dolore, magari non siete interessati ai cibi in scatola di Bono, non siete interessati al fatto che lui legga tantissimo da Dostoevskij a Kafka a Shakespeare, del suo amore per la moglie, i figli, questa fede smisurata e così onnipresente in tutto il suo pensiero ed essere.
Magari di tutto questo non vi interessa niente. A molti di voi interessa la sua musica, a tanti invece capire quanti soldi ha, giusto? A molti interessa sapere chi è veramente Bono? Pacifista assoluto, presenzialista, opportunista, paraculo e para tutto? Ho terminato di leggere il libro in aereo, volevo tenere la fantasia sotto freno e avere qualcosa di positivo da tenere in braccio, invece del solito guardare fuori e dire “è bellissimo… ma se cade ora? meglio in acqua o meglio sulla terra ferma? E allora mi sono dedicata al finale di Surrender e quando l’hostess ha annunciato che su Londra avremmo trovato pioggia, ho chiuso il libro, ho guardato fuori e dopo il passaggio da una nuvola all’altra, era spuntato l’arcobaleno. Così ho pensato che fosse davvero un bel presagio e anche il fatto che non dovevo concentrarmi su quella mancanza di aria che mi aveva un po’ scioccata all’inizio delle pagine ma dovevo concentrarmi su quella parola che era come arcobaleno ora che Bono utilizza per chiamare The Edge, Larry, Adam, ovvero i suoi “miracolosi fratelli”. Ho sottolineato questo momento del libro, perché potremmo dare mille spiegazioni, fare libri e tutto quello che volete, sentire i detrattori di Bono, sparsi ovunque e che spuntano come funghi ma non ci sarà nessuno che riuscirà a spiegare cosa sono gli U2 meglio di questo termine. Gli U2 è la storia della rock band più importante a livello planetario e anche più ricca ma è sopra ogni cosa la storia di quattro miracolosi fratelli.
Poi badate bene che in 600 e rotte pagine troverete tutte le contraddizioni e le manie di un ragazzo che è voluto diventare a tutti i costi quello che è ma che non ha mai perso di vista l’obiettivo: “Uomini che si sono conosciuti da ragazzi. Uomini che hanno infranto la promessa su cui si fonda il rock vale a dire che puoi prenderti il mondo ma in cambio il mondo si prenderà tè. Puoi avere il tuo complesso messianico, ma se non muori in croce a trentatré anni tutti hanno il diritto di chiederti indietro i soldi. Noi li abbiamo delusi. Per ora“ (Bono, Surrender)
LONDRA, 16 NOVEMBRE 2022, Verso il Teatro Palladium: A Londra pioviggina, all’inizio. Poi smette, poi ricomincia a piovigginare e poi attacca forte. Insomma, non è il clima migliore per aspettare Bono che arriverà prima lì per il soundcheck. Intanto facciamo dei giri primi, passiamo per Carnaby, e lì ci si ritrova davanti ad un panorama pieno di luci natalizie, con gente a sguardo basso concentrata a tenere bene l’ombrello, quasi a diventare ombre e poi una linguaccia rossa enorme che ti dà il benvenuto. È la strada dei Rolling Stones, un’altra storia, un altro gruppo e nonostante quel rosso sfavillante della lingua che domina, che vi costringe a guardare il negozio dei Rolling, lì in tutto quel rosso, lo sguardo si sposta sul nome di Charlie Watts scritto in nero sulla vetrina. È un contrasto di vita e morte che a dire il vero non so spiegare, ma il nome di Charlie Watts mi riporta a guardare gli uomini che diventano ombra in mezzo a Carnaby Street, più che prestare attenzione alle luci. Ma è tardi, anche se Soho è lì dietro. E di nuovo luci, persone che attendono Bono dall’uscita secondaria del Palladium. Piove e quando lui arriva tiene un ombrello in mano, si ferma poco, anche se si ferma, tempo di guardare i suoi fan, di salutare, e per noi di vedere per bene i suoi famosi capelli tinti, che per la cronaca no, non sono ridicoli e magari Bono dovrebbe dirci quale tinta usa. Vestito di nero, nel suo cappottino elegante, indossa come sempre i panni del ragazzo venuto da Cedar wood e quello della rock star a cui puoi chiedere tutto.
Bono non ti allontana, Bono non si stacca mai dalla sua gente, questa sera anche se per poco ma non si è staccato. Così entra dentro salutando, accompagnato dai bodyguard per cominciare le prove. Più tardi poi, la fila, dall’ingresso principale inizierà a diventare folta, ma mai scomposta e lo spettacolo può cominciare. Però voglio cominciare dalla fine, perché da buon italiana ti rimane un orgoglio strano misto di rabbia e consapevolezza della grandezza della nazione da cui provieni, perché Bono nel finale intona una canzone cara al padre ovvero “Torna a Surriento” eh sì diciamocelo pure se le emozioni erano state enormi fino a quel momento e si erano riversate come acqua in un palloncino strapieno ormai, sentire quella canzone è stato come avere l’ago che ha fatto scoppiare il palloncino. Ora possiamo tornare all’inizio, ai telefonini riposti nei sacchetti. Lo so che certe volte sembra una violenza quasi ma pensate a quanta concentrazione e attenzione diamo ai cellulari durante uno spettacolo e che ti fa perdere dei momenti talmente preziosi, talmente unici che se li perdi li perdi, non si recuperano più. E non parlo solo del fare foto, parlo di gente che comunque “controlla un attimino” il cellulare e via che ti perdi di fissare per bene e cercare di capire se quello che è appena entrato da Bono è Bob Geldolf.
Non c’entra nulla ma per farvi un esempio enorme: del concerto di Leonard Cohen non ho nemmeno una foto, di Elvis Costello per dire, il cellulare mi si ruppe un’ora prima del concerto. Ma ricordo questi concerti ogni giorno sempre di più. Poi è bello avere la foto, è bello registrare la canzone …ma tutto questo sarebbe bello lo stesso se non ci fossero i social e se non avessimo l’esigenza di dimostrare di essere al momento giusto nel posto giusto dove altri vorrebbero essere? E allora va benissimo così, va bene mettere i telefonini nei sacchetti.
Sul palco l’atmosfera è intima, c’è un’arpa, un violoncello, e il percussionista e non è il momento degli stadi come dice Bono e come ribadisce “la band mi ha dato il permesso per stare una sera da solo a Soho”. Tutto è frammentato dai ricordi e alternato con le canzoni. Una lenta e viscerale interpretazione al rallentatore di “With Or Without You” fa da sfondo alla storia dell’amore della sua vita, la moglie Alison, e subito un’esecuzione drammaticamente bella di “Sunday Bloody Sunday”, dove Bono è l’unico momento in cui si fa aiutare dal pubblico. Per il resto non ha voluto gli applausi, a tratti li ha anche fermati. E poi Pride tornando alla mente e ai ricordi dell’esibizione al Live Aid del 1985. Ad un certo punto tutto si fa di nuovo drammaticamente serio, non che il resto non lo fosse o meglio più che serio, struggente e si capisce anche lì in quel momento che puoi essere la star più potente e importante del mondo ma se racconti quando tuo padre ti ha confessato di avere il cancro, solo chi lo ha provato sa cosa significa la mancanza d’aria, ed è davvero difficile ricominciare a respirare se non sa più come si fa. E sei da solo. Intona “Beautiful Day“, accompagnata dal pianoforte e siamo alla fine, quella che io ho fatto diventare l’inizio, ovvero l’omaggio al padre intonando Torna a Surriento.
Bono come racconta nel libro e come è facile in alcuni momenti capire nelle sue canzoni non parla solo della rabbia per l’assenza della madre, Bono è arrabbiato perché quando la madre è morta e nessuno parlava di quel dolore per non affrontarlo, è come se tra lui e il padre si fosse palesata quella mancanza di aria, un rapporto tenuto sottovuoto. Il padre per quanto amore provasse non gli ha mai concesso niente, non gli ha mai concesso nemmeno l’essere la star più importante sulla faccia della terra. Tutto quello che il mondo gli ha riconosciuto il padre lo ha in un certo senso, riportato nella sua stanzetta di Cedarwood. Per quanto lo spettacolo sia stato a tratti anche divertentissimo quando Bono ha iniziato ad imitare la voce di Pavarotti e anche di Lady Diana, però è forse la prima volta che dalle pagine di Surrender fino al palco Bono si arrende, si arrende davanti alla morte della madre, del padre, si arrende a un rapporto che rimarrà quello che è stato, si arrende alla sua paura di morire nel 2016 dopo che il suo cuore, quello generoso, quello combattivo, incazzato, che batteva per tutto e tutti, d’un tratto è rimasto lì, fermo, lasciandolo senza aria. Come dice lui “senza aria, senza una preghiera”.

Quando tutto finisce, dopo un’ora e mezza di teatro, musica e vita, in fretta e furia lasciamo i posti per andare di nuovo da dove tutto è iniziato, dall’uscita secondaria. Eravamo davvero in pochi ad aspettarlo, accanto a noi un fan spagnolo con cui si chiacchiera tutto il tempo degli U2 e di musica in generale. Tempo che ci si distrae a parlare che Bono esce frettolosamente, tenendosi bene il colletto del cappotto stretto alla gola con tutte e due le mani, cercando di riparare la gola da un freddo pungente. Questa volta non si ferma, lo chiamiamo e lui un attimo si gira verso di noi, sorride ma corre in auto sempre tenendosi le mani al collo. In realtà l’uscita di Bono era scontata, ci eravamo informate prima che sarebbe uscito da lì. Ma un secondo prima dell’uscita di Bono davanti a noi, presi dalle nostre chiacchiere, si era palesato un uomo magro, minuto, non molto alto e che abbiamo riconosciuto solo perché il fan accano a noi ha iniziato ad urlare “Noel, Noel, Noel” ed io guardando la mia amica ho iniziato a urlare a lei “Noel , Noel“ ma non perché Noel Gallagher degli Oasis avesse più importanza di Bono è che proprio non ci aspettavamo che uscisse da lì, un secondo prima di lui e Noel paradossalmente ci ha distratte. Però è stata una bella sorpresa. Tanto che alla fine volevamo vedere anche dove si dirigeva, perché a differenza di Bono, Noel era a piedi e detto chiaramente: non abbiamo capito più niente. Tra le piccole riflessioni sulla sorpresa di vedere lì Noel sgattaiolare davanti a noi e dirigersi a piedi forse verso qualche pub e la preoccupazione per Bono – non si è fermato perché aveva mal di gola e visto come si copriva?
Torniamo a casa con un bel po’ di emozione, di stanchezza anche, di malinconia, di storie e passaggi, di strade piene di ombre e di un piccolo concerto talmente intimo da sembrare paradossale per una star come lui. Ha smesso di piovere, le luci sono di nuovo tornate ad essere possenti e predominanti, come l’arcobaleno quando sono atterrata qui. Poi per strada la domanda rimane sempre quella “ma come mai in Italia Bono non viene”?
Due giorni dopo, in aeroporto, acquistando il solito gadget inglese da portare con me, vedo sugli scaffali il libro di Bono e poi dallo scaffale di fronte una scritta che non ricordo se fosse su un libro o una rivista o non so cosa, del Dalai Lama “giudica il tuo successo in relazione a ciò a cui hai dovuto rinunciare per ottenerlo”. Mi è sembrato per un momento che la storia di Bono si stesse riflettendo in quella scritta.
“Dove ci spinge il desiderio? ottenere questo? perdere quello? […] dove ci spinge il desiderio? ci spinge via di casa.“ (F. Kafka)
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luca
28/11/2022 at 14:08
Mi è piaciuto il tuo racconto anche se troppo “londinese”. Ero anch’io un adolescente che amava gli U2 di unforgettable fire ma poi gli ultimi dischi, i palchi enormi, il presenzialismo di Bono, le storie sul capitalismo e gli affari, le ospitate da fazio, le vaccate buoniste e più che la vera bontà mi hanno fatto detestare il personaggio oramai un vero “lagnoso occhialuto” (definizione del protagonista in una puntata di Elementary).
Le canzoni non sono mai state dei capolavori musicali anche se le prime erano piene di forza ed entusiasmo ma ora stiamo rasentando le vaccate di Madonna e Lady Gaga. Il rock è morto? Di certo gli U2 non stanno tanto bene.