A chi è attento alle novità musicali italiane, a chi ama stare al passo con le evoluzioni più interessanti che avvengono al di fuori del mainstream, difficilmente può essere sfuggita la comparsa – ormai 3 anni fa – di un nuovo, interessante collettivo nell’underground napoletano. Parlo di ThruCollected, nato durante la pandemia e presto affermatosi come una delle realtà emergenti in ambito musicale (e artistico in senso ampio) più valide e promettenti del panorama nazionale.
E a chi è rimasto ammaliato da pezzi come Atlante o Artemoneta – i primi a circolare con insistenza – e dai relativi video a tratti cinematografici, difficilmente può essere sfuggito uno dei suoi membri più rappresentativi. Grandi occhi azzurri, sguardo straniante a tratti perso nel vuoto, voce al tempo stesso delicata e sofferente: parlo di Alice. Il suo percorso da solista, pur sempre ben contestualizzato nell’immaginario del collettivo napoletano, ha una propria anima ed è ben rappresentativo di un mondo interiore che esiste in Alice e in tante persone che nella sua consapevole fragilità si rivedono e si riflettono. Un mondo interiore che nella sola cornice ThruCollected è dipinto in maniera fedele, ma non esaustiva.
E quindi, dopo la pubblicazione dei primi singoli ufficiali ancora nel 2020 e la partecipazione a Discomoneta (release collettiva di ThruCollected) e agli EP di Altea e SANO, era arrivato per Alice il momento di dare sfogo e voce all’universo che sta nella sua testa e nel mondo attorno a lei, affiancata sì dai suoi compagni di viaggio di sempre, ma questa volta da protagonista.
Ecco allora che, circa 10 giorni fa, è uscito finalmente il suo primo album Città dall’alto. Un disco anti-pop in cui convivono influenze midwest emo e post-cantautorali, pattern garage e tanti strumenti reali, principalmente suonato ma con l’elettronica sempre pronta a ritagliarsi il suo spazio. Di questo disco e di cosa significhi per il suo percorso abbiamo parlato direttamente con lei, facendole qualche domanda. E, come sempre, starla ad ascoltare – che sia in musica o solo a parole – è un’esperienza che destabilizza (nel miglior senso del termine) e arricchisce. Quindi, buona lettura!
In che momento della tua vita arriva Città dall’alto, il tuo primo album? Come ti senti?
Città dall’alto atterra in uno spazio nuovo, accogliente. Mi ha aiutato molto a dare una forma alle tante sensazioni e a mettere ordine a tutte quelle piccole gigantesche cose che mi hanno reso l’Alice di oggi. Il raggiungimento di un obiettivo non mi fa stare meglio: sto bene, sì, ma in realtà sono impaziente non so di cosa.
A tuo parere cosa riesce a fotografare, di te e del tuo percorso musicale, questo tuo primo disco?
È tipo un segnalibro, un punto esclamativo, post-it appesi sul muro per ricordarti cosa devi fare! Ho più consapevolezza di me sia nella vita personale che nella musica. Sto imparando a imparare. Come se fossi piccola. Mi sento così.
Quando e come ha iniziato a prendere forma l’idea dell’album?
Era dall’estate che ne parlavo e poco prima della fine dell’anno abbiamo deciso di concentrarci intensamente e partorirlo.
Chi ha contribuito maggiormente alla realizzazione di Città dall’alto?
Riccardo, Gionni, Rainer, Altea, Vale, Hugo: nessuno escluso di Thru e tutti i miei amici, chiunque e qualsiasi cosa attorno indirettamente ha contribuito a tutto ciò.
C’è un pezzo del disco a cui sei particolarmente legata? E perché?
Mi verrebbe da rispondere tutti, li sento tanto miei il che è bello. Mi rispecchio in ogni secondo di ogni pezzo. Mi abbracciano.
In Le mie scarpe canti “l’adolescenza mi faceva diversa”. Cosa intendi dire? Come hai vissuto la tua adolescenza?
È un concetto strano quello di “l’adolescenza mi faceva diversa”. Le mie scarpe è l’unico pezzo che esisteva già da più di un anno e quando lo scrissi ero in un periodo un po’ down e mi ritrovavo a pensare che era meglio l’Alice dei miei sogni, tipo tra il dire e il fare mi ero accartocciata un po’. Ben venga.
In Brilla ritorna lo stilema delle “pupille rotte”, che si può trovare in vari tuoi brani passati, tra cui Atlante e Senza Tempo. Che significato ha per te quest’espressione? E che importanza hanno in generale nella tua scrittura le tante metafore che popolano le tue canzoni?
“Pupille rotte” è una metafora a cui penso da tanti anni, da quand’ero più piccola: è come se rispecchiasse tutto il mondo esploso negli occhi, ha un sapore un po’ cinico. Mi piace usare metafore per dare una diversa visione di un qualcosa: mi piace quando si immaginano le cose e grazie all’immagine riesci a percepire le sensazioni sulla pelle. Diventa intimo e personale.
Riguardo al tuo passato, ti è capitato di dire: ”Mi sono sempre focalizzata o forse semplicemente accomodata sul concetto di prendersi il proprio tempo, rimanendo però in balia di aspettative da parte di me stessa e degli altri che non mi motivavano ma mi immobilizzavano”. Con questo tuo primo disco senti di aver rispettato quelle aspettative? O di averle piuttosto finalmente messe da parte?
Dire “ho superato” mi sembrerebbe di essere arrivata. Sto ancora in movimento fortunatamente, quindi dico che le sto superando, quest’album aiuterà anche in questo.
Quando è nata per te la passione per la musica? E quando l’idea che la tua strada era farla, la musica?
Me la ricordo come luogo sicuro da quando sono piccola: viaggi in macchina con i CD masterizzati, canzoni inventante che facevo cantare ai cugini e amici, all’intera adolescenza con le cuffie 24 ore su 24. Preferivo alienarmi nella musica che fare altro. Se si può dire, fare la cantante era tipo la risposta al teenage dream, molto anche grazie a mio padre che è da sempre un mangiatore di musica. Però nel 2020, fondamentalmente grazie a Ricki Capone (SANO), mi sono interfacciata per la mia prima volta a un microfono e a una voce registrata. Prima cantavo di mio o a scuola. Ma era fisso: sapevo che prima o poi sarebbe arrivato un momento mio in cui avrei cantato canzoni inventate non solo davanti ai cugini nel salone della nonna.
Quali sono stati gli artisti che più ti hanno influenzata crescendo? Sapresti citarne anche qualcuno che ha lasciato un segno in te durante la stesura di Città dall’alto?
Ho ascoltato troppo rap nella vita, che mi ha influenzato molto nella ricerca della verità e dell’esperienza quando racconto. Molti generi, molti mood mi hanno accompagnato e mi cringia spammarli come prescelti e preferiti. E comunque no, non so citare punti di ispirazione per quest’album. Tutti e nessuno.
Come hai conosciuto gli altri membri di Thru Collected? Che valore ha nella tua vita personale e artistica fare parte del collettivo?
Allora: SANO, Lucky, e altri già li conoscevo da prima che facessimo tutti parte di Thruco, grazie a Napoli, all’Arenella, ad altri amici, al liceo. Invece Gionni, Riccardo e Gabriele li ho conosciuti nel 2020. Poi dopo anche Fabri, Peppe e Altea. Mi aiuta stare in un collettivo perché mi fa stare sempre coi piedi per terra, gli occhi aperti. Mi cresce. Da sempre giro e cambio luoghi e amici, e avere adesso da una parte un gruppo di persone così fisso attorno perché condividiamo tale fatto, è molto speciale. Poi è banalmente risaputo che quando condividi un’idea con qualcuno per un secondo ti senti invincibile, ed è bello oggigiorno sentirsi parte di qualcosa di vero.
Riesci a immaginarti un’Alice senza ThruCollected? E ThruCollected senza Alice?
No, no. Ma non è neanche rilevante parlarne, dato che il presente è questo.
Quanta importanza ha Napoli per te in quanto artista? E per te più in generale, come persona?
Napoli mi dà aria e me la toglie. Mi ha adottata e mi ha cresciuta, anche se a volte mi tratta male. È un albero e noi siamo i rami. È piena di cose anche da fare, è piena di persone che si costruiscono quello che vogliono o ci provano, è viva, è cruda, è animalesca, ti schiatta sempre in faccia la realtà delle cose. La odio e la amo, banalmente. Però la necessito. Quando sto fuori arriva un momento in cui mi manca, poi dopo due giorni che ci sto ricomincio a stare male. Ma è umano, that’s good.
Non manca tanto all’estate: programmi? Si gira un po’ l’Italia come ThruCollected o farai qualche data per conto tuo?
No programs, mi sento fuori dal mondo: non so manco in che giorno siamo del mese…
Pietro Possamai