Filippo Zucchetti è un cantautore italiano che dà la priorità alla sostanza della canzone rispetto all’immagine dell’artista, e il suo ultimo brano, “Anita non deve piangere”, è un esempio di questa filosofia. Nella canzone, Zucchetti esplora il rapporto tra natura, anima e vita, usando la figura simbolica di Anita per rappresentare la purezza interiore spesso dimenticata nella società contemporanea. Attraverso un linguaggio poetico e un arrangiamento curato insieme alla produttrice Marta Venturini, il brano offre un percorso riflessivo sulle radici e sull’essenza umana, invitando l’ascoltatore a ritrovare un contatto autentico con la natura e con se stessi.
Il brano “Anita non deve piangere” sembra portare con sé un messaggio forte di ritorno all’essenza più pura di noi stessi. Come è nata l’idea di raccontare queste tematiche attraverso la figura simbolica di Anita?
Volevo parlare dell’esistenza e dell’importanza di un nostro essere quasi dimenticato, la parte più pura e naturale di noi, soffocata dalle troppe sovrastrutture artificiali che abbiamo impiantato nel nostro vivere quotidiano. I ruoli sociali, le ideologie, le credenze, e tutti quegli schemi mentali collettivi ereditati che ci impediscono di conoscere il nostro vero se, o, come dico nel brano: “la nostra parte migliore”.
Tutto ruota intorno a tre concetti principali quali Anima, Natura e Vita, ed è dalla fusione di queste tre parole che nasce il nome ANITA. L’intento era quindi di descrivere tutto ciò attraverso una figura simbolica preziosa e delicata, purissima e lucente, in continua trasformazione e fusione con la natura in quanto essa stessa natura.
Hai dichiarato che questo brano è nato in poche ore durante un viaggio in treno, ma racchiude anni di osservazioni e introspezione. C’è stato un momento specifico in cui hai capito che questo era il testo giusto per esprimere il tuo pensiero?
In effetti è andata così. La stesura è durata solo poche ore, ma lo sviluppo dell’idea è durata anni. Avevo scritto decine di pagine di appunti che poi durante quel viaggio condensai nel testo. Ricordo che non mi resi subito conto della bontà di quanto avevo scritto. Alcuni giorni dopo, rileggendo le varie strofe, compresi che era ciò che volevo; un linguaggio personale capace di dare il senso di fusione.
Nel tuo percorso artistico, la canzone stessa è sempre stata al centro, con un’attenzione particolare al rapporto tra parole e musica. Come hai lavorato con Marta Venturini per produrre e arrangiare questo brano mantenendo questo equilibrio?
Nel caso di questo brano diedi a Marta una versione pre-arrangiata del brano che avevamo sviluppato in uno studio di registrazione di Perugia chiedendole di rimanere quanto più fedele possibile a quell’arrangiamento.
Quando parlo di rapporto tra parole e musica intendo più che altro un lavoro che viene svolto prima della produzione del brano e cioè in fase di creazione. Il mio metodo di scrittura prevede prima la composizione della melodia sulla quale poi “appoggiare” il testo. Quando parlo di equilibrio mi riferisco a questa unione tra melodia e testo.
Il testo di “Anita non deve piangere” si trasforma come un fiume, evocando immagini profonde e toccanti. Qual è stata la sfida più grande nel trovare un linguaggio personale che riuscisse a sintetizzare le tue riflessioni sulla vita e la società?
Ci sono i concetti e il modo in cui questi vengono espressi. Avevo abbastanza chiaro in testa di cosa volevo parlare, ma mi serviva il giusto linguaggio per esprimerlo. Cercai una forma linguistica capace di dare il senso di “fusione” con la natura, con il tutto. Immaginai delle scene della natura e cercai di descriverle in modo semplice ma non banale, poetico ma non sdolcinato. Sono nate così frasi come:
“Gli argini delle tue guance” e la relativa l’immagine surreale del pianto che poi si trasforma e torna sotto forma di pioggia e grandine. Oppure: “All’ombra dei tuoi zigomi mi addormenterò”, in cui l’albero e la forma umana sono un tutt’uno. “Vederti sorgere e illuminare”, l’unione tra il risveglio umano e l’alba. Lo stile doveva essere riconoscibile e per quanto possibile unico. La struttura del brano è anch’essa particolare in quanto non segue il classico schema Strofa-Inciso-strofa-inciso ma è composta da un’Intro quasi parlato per poi procedere con una serie di strofe a “grappolo” in crescendo di intensità.
Hai citato l’influenza di libri, film e la tua ricerca di un linguaggio personale nel processo di scrittura di questa canzone. Ci sono opere in particolare che ti hanno ispirato durante la composizione di “Anita non deve piangere”?
Nel caso di questo brano non credo che l’ispirazione sia riconducibile ad una o più opere in particolare, ritengo piuttosto provenga da un insieme di ciò che ho visto, letto, vissuto e infine rielaborato. Di certo lo spunto è da ricondursi alla corrente filosofica del Naturalismo Rinascimentale e in particolare del filosofo Giordano Bruno.
Guardando al futuro, stai già lavorando su nuovi progetti musicali? C’è un messaggio o un tema che vorresti esplorare nel prossimo lavoro?
A breve uscirà un nuovo singolo dal titolo “L’Uomo che non c’era”. Un testo onirico, pieno di immagini potenti che toglie tutti gli appigli rassicuranti del conosciuto lasciando libera la nostra mente di andare oltre con la curiosità di vedere cosa accade.
Attualmente sto scrivendo altri brani esplorando concetti quali tempo e spazio, oppure quanto il nostro pensiero possa creare la realtà e quanto invece questa possa influire sul pensiero. Resta in primo piano il messaggio di riconnetterci con la natura, di essere parte di essa e non al di sopra di essa. Di fermare lo sfruttumanto scellerato degli animali e del pianeta per produrre troppo cibo che non mangiamo (o mangiamo in modo esagerato) e troppe inutili cose che non utilizziamo per poi buttare tutto generando il problema dello smaltimento dei rifiuti. Ritengo tutto questo una follia!
Proteggere la natura significa proteggere la nostra stessa vita, perché in fondo “In questa disperata nostra folle corsa Anita è tutto ciò che ci resta”.