Una raccolta di istantanee che attraversano quartieri, presepi di sughero, scuola dell’ovvio, giocatori di calcio, desideri disattesi. Una scrittura vestita di un pop leggero, dietro la quale si celano, per contrasto, scenari decadenti e disillusi.
E’ uscito a Ottobre per peermusic ITALY Ormoni, l’album che segna la nuova fase artistica del progetto nato nel 2017 come collettivo e ora evolutosi in forma solista. Dentro Kinder Garden, infatti, oggi sono racchiuse la musica e le parole del romano, classe 1996, Francesco Menna.
Otto brani tra synth pop contemporaneo e indie pop elettronico, con una voce dai contorni post-trap, che vedono anche la partecipazione di Nerototale – cresciuto nello stesso giro musicale di Francesco e già nella Garage Gang – e quella di Alice, cofondatrice e componente del collettivo Thrucollected.
La tua è una scrittura per immagini, dove un’istantanea diventa simbolo, metafora di una riflessione, di una idea, di un concetto. Dal turbolento campione biancoceleste Chinaglia, al quartiere Parioli di Roma, ai presepi di sughero. Ci sono, secondo te, altre immagini racchiuse nel tuo disco che possono rimanere impresse o in cui potrebbe riconoscersi chi lo ascolta?
Personalmente sono molto legato a Presepi, in particolare alla frase “tu volevi una figlia per avere una madre” e al gioco di significati finale “dente che brilla/stella che cade” che ovviamente va rovesciato (dente che cade/stella che brilla), lo trovo abbastanza evocativo.
Quanto conta l’identità visiva in un progetto musicale come il tuo? E come hai scelto le foto che sono state poi lavorate per diventare copertina dell’album e dei singoli?
Penso che l’identità visiva di un qualsiasi prodotto sia molto importante, ma nella musica secondo me si potrebbe dire che non esistono dei bei dischi che hanno una copertina brutta, e allo stesso tempo non esistono brutti dischi con copertine belle.
Il senso è che una copertina deve sempre essere a servizio della musica, quindi se quest’ ultima non ha un significato allora la copertina sarà priva di impatto.
Le foto le ho scelte su suggerimento della mia ex ragazza che stava sfogliando un mio album di famiglia (sono vecchie foto che ha fatto mia madre quando ero piccolo).
Tra rock e rap, passando per una formazione jazzistica e mettendo anche il naso nell’elettronica “tra loop ripetitivi e sonorità sintetiche” come si legge nel racconto del tuo album. Come si fondono queste anime, apparentemente lontane, nella tua musica e nel processo creativo?
Io ho sempre cercato di vedere la musica (sia nel momento dell’ascolto che in quello della produzione) semplicemente come una distrazione, come può essere un gioco per un bambino che non si chiede a che gioco sta giocando, passa semplicemente il tempo.
Per cui non catalogo mai la musica per genere quando ascolto, così come quando scrivo non penso più di tanto a cosa sto scrivendo, provo solo a non fare cose troppo lontane da me.
Ci ha colpiti in particolare il brano “Scuola dell’Ovvio”. Quand’è che secondo te il disagio si camuffa da fraintendimento, facendo sembrare ovvia una cosa che forse, in fondo, così ovvia non è?
Quando l’ego e l’io si fondono insieme e non si distinguono più.
Mi provo a spiegare.
Il sentimento di disagio ha mille sfaccettature e ognuno se lo vive diversamente, ma volendo generalizzare, io direi che nasce dalla mancanza di cura.
Potrebbe essere cura verso noi stessi, verso un’altra persona, una pianta, un cane o qualsiasi altra cosa, il punto è che per avere cura c’è bisogno di sapere chi si è, o meglio, bisogna sapere che si è, e questo è impossibile se si confondono l’ego e l’io.