Il titolo del primo album di Moderno, Storia di un occidentale, viene volutamente scritto in caratteri cinesi sulla copertina. La scelta del cantautore romano – all’anagrafe Federico Antonio Petitto, professore di filosofia quando veste i panni di persona “normale” – vuole ironizzare sulla cultura occidentale di cui fa parte, che si ritiene l’unica fonte di civiltà e ha la pretesa imporre i suoi valori all’intero pianeta. L’intero disco – uscito il 27 gennaio su tutte le piattaforme digitali – è il racconto di un individuo vissuto in un’epoca che lo stesso autore definisce “post-moderna”, riprendendo l’espressione del filosofo francese Jean-François Lyotard. Un’epoca senza grandi ideali a cui votarsi, dove anche le relazioni sociali e sentimentali sono destinate a naufragare, per paura di scoprirsi…
Immaginando di portare “Storia di un impiegato” di De Andrè nella società di quasi cinquant’anni dopo, Moderno non si assolve dalle proprie responsabilità e prova a rilanciare un nuovo immaginario comune, in cui rimettersi in gioco e ritrovarsi: perché qualunque sia la nostra provenienza, apparteniamo a un’unica e grande Storia.
Che valenza ha Storia di un impiegato nel mondo di oggi? In che modo il tuo disco cerca di portarlo “nella società di quasi cinquant’anni dopo”?
Le forme di sfruttamento e “alienazione” raccontate da un De Andrè quasi-eversivo all’epoca possono essere ritrovate in chiavi nuove anche nel contesto contemporaneo. Oggi narcisismo individualista, assenza di stimoli che possano dare una direzione forte alle nostre esistenze ed edonismo consumistico sono i nuovi poteri da combattere. E a crederci assolti, beh, siamo tutti noi.
Oltre a De Andrè, quali sono stati i tuoi riferimenti musicali nella scrittura del tuo disco?
Mi ispiro alla cultura underground italiana per quanto riguarda la ricercatezza dei testi (Luci della centrale elettrica, Marta sui tubi, Eva Mon Amour, Marlene Kuntz e ne dimentico molti altri). Tengo poi salda dentro di me la lezione della musica d’autore italiana e internazionale: penso ad esempio ai vari Nick sparsi per il mondo (Fabi, Contessa, Drake, Cave…). Musicalmente ho un debito anche nei confronti della scena emo-punk degli anni ‘90, oltre che con producer come Cosmo, Jamie XX, Nathan Fake, Four Tet e altri. È un disco spazioso!
Il disco ha un titolo significativo: Storia di un occidentale. Che storia racconta?
In quell’epoca frenetica e fragile che definisco “post-moderna”, in corso da ormai alcuni decenni in Occidente, c’è un ragazzo che cerca di ritrovare un suo filo conduttore. Tra ricerche interiori, attimi di bellezza e fughe di ricordi, si accorge del valore della comunicazione con l’altro, che a mio avviso sta sempre più perdendo forza e spessore. Questo ragazzo cercherà infine di spiccare il grande salto: sentirsi infinito grazie a qualcuno.
Nella sua presentazione citi il filosofo francese Lyotard, ma se dovessi riassumere in poche parole il messaggio del disco, come lo racconteresti?
Oltre che a Lyotard, penso anche a Un Weekend Postmoderno di Tondelli. Disgregazione e crisi di grandi ideali, storie in cui ci si arrangia, esistenze che hanno perso un faro collettivo e che rischiano di sfociare nell’individualismo più sfrenato. Mi piacerebbe recuperare una dimensione dove tutte queste anime perse possano riavvicinarsi e diventare più forti l’una nell’altra. Ambisco a un “eroico furore” che ci elevi sopra le bassezze del mondo e cerco di ricrearlo già nei miei live.
Quale pensi che sia la canzone più rappresentativa dell’album?
“L’ultima canzone dell’umanità” per il testo, che cerca di immaginare un senso ultimo da poter dare alla fine dei giorni umani su questo pianeta. “Serena” per l’arrangiamento e il sound. Non per caso si tratta delle ultime due canzoni del disco. Così, quando la critica crederà di aver capito la mia proposta musicale, nel frattempo sarò già andato oltre.
Come si traduce dal vivo il tuo progetto? Suoni da solo in acustico o con una band a supporto?
Live mi esprimo solitamente con i miei amici musicisti a supporto, dando vita a uno show che spazia tra folk, elettronica e momenti più intimisti con chitarre soft, pianoforte e tappeti di archi. A tenere insieme i vari scenari c’è la voce e il mondo “spirituale” che mi piace evocare. Quando non è possibile suonare al completo, mi diverto moltissimo anche in acustico, tirando fuori tutta la mia vena punk e riuscendo sempre a produrre grande caciara insieme al pubblico. Spero che quest’estate ci sia possibilità di far zompettare più di qualcuno sotto il palco.