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Interviste

Tra Angoscia e Rivalsa: il viaggio di SERGIO ANDREI in Hibakusha

Sergio Andrei
Foto di Fabio Germinario

Secondo album in studio di Sergio Andrei, il progetto riunisce i due Ep “Hibakusha – Parte 1: Angoscia” e “Hibakusha – Parte 2: Rivalsa”, per offrire un’esperienza d’ascolto che esplora il dualismo tra sofferenza e rinascita. Il termine hibakusha (被爆者), che in giapponese significa “persona che ha subito un’esplosione”, identifica i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.

Composto dai kanji 被 (subire), 爆 (esplosione) e 者 (persona), è diventato simbolo di cicatrici indelebili, ma anche della volontà di non essere ridotti solo a queste. La dualità che ne scaturisce è il cuore dell’album, che si snoda tra memorie dolorose, trasformando il passato in un punto di partenza per la ricerca di riscatto e di una nuova identità.

Hai scelto “Hibakusha 被爆者” come titolo e concetto centrale dell’album, il cui significato simbolico è fortissimo. Occorre in ogni caso, però, una descrizione per comprenderlo. Se dovessi trovare uno o due aggettivi in italiano, al suo posto, come titolo del lavoro o del “Sergio Andrei” di cui parli nei brani, quali sarebbero?

Liberatorio, Transitorio. Rappresenta appunto l’essermi liberato di paletti precedenti, come quello di ignorare la mia parte rap e di conseguenza vedere finalmente qualcosa più vicino al mio essere. Lo sento transitorio perché mi sembra il primo vero passo verso un’identità che continuo a ricercare e scoprire. Ora devo esagerare.

“Angoscia” e “Rivalsa” rappresentano due poli emotivi opposti: in una sei passivo, nell’altra attivo. Hai affrontato in modo diverso la scrittura o la produzione delle due sezioni? E oggi, che rapporto hai con questi concetti? 

Li ritengo da una parte insuperabili e per questo interessanti, ma anche complementari e sovrapponibili al tempo stesso. 

Non ho provato realmente l’angoscia da una parte e desiderio di rivalsa dall’altra, ma sono due poli che tracciano il mio percorso artistico: mi sono sempre mosso all’interno di questi due estremi senza toccarli, seppur arrivando molto vicino. Il tentativo di allontanamento dall’angoscia porta alla creazione tanto quanto il bisogno di rivalsa.

Le collaborazioni con Danno e Jekesa hanno aggiunto sfumature interessanti a un lavoro che in ogni caso ha tanto da restituire a chi ascolta: come sono nate queste partnership?

Danno per caso. Lo stavo sentendo per organizzare un evento dove lo volevo come main. Poi gli ho mandato una traccia e non abbiamo più smesso di parlare di musica e canzoni. Jekesa grazie al Rubber Soul, produttore del disco, che ci ha fatti conoscere.

La tracklist sembra costruire un vero e proprio viaggio emotivo e narrativo. Quanto tempo hai dedicato a definire l’ordine dei brani e quale logica ti ha guidato nel collocare pezzi centrali come “Bartender” e “Pirati”?

Non avevo mai pensato a questi due pezzi centrali o a un ordine reale: ho lasciato spazio alla spontaneità. Ma interessante! Voi cosa ci vedete?

Hai citato influenze come Mac Miller e Mac DeMarco per alcune sonorità. Quali altri artisti o generi ti hanno guidato, sia dal punto di vista musicale che lirico?

Si l’ho chiamata, scherzando, “la teoria dei due Mac”, per far capire ai miei collaboratori le influenze che cercavo. In qualche modo l’intento era quello di unire le mie parti più hip hop con quelle indie, ma indie inteso come De Marco appunto. Poi dentro c’è tanto altro, che magari oggi è solo embrionale e deve ancora trovare il suo sviluppo. Avendo iniziato anche a fare delle selecta da dj, sto ascoltando sempre meno testi in italiano e sempre più musica strumentale.

Le tematiche di Hibakusha nascono da esperienze intime, ma trovano una risonanza universale. Esistono argomenti che consideri un confine invalicabile, qualcosa di cui non scriveresti mai?

Mmmm… non credo. Dovremmo parlarne a voce. 

Ultima domanda: come suggerisci di ascoltare il tuo disco?

Vino e nuvole sulla golden hour.

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