L’era di quando erano passati allo status di culto pare definitivamente diluita, quarant’anni incidono abbastanza sulla creatività, e quello che ieri era oro in questo nuovo lavoro degli inglesi Elbow la materia musicale si trasforma in piombo, appesantita da una certa cromaticità esistenziale che – non me ne vogliano i detrattori – ha fatto il suo tempo nonostante l’integrità della stoffa.
“The Take Off Landing Of Everything” si carica sempre di quella “distanza” dalla mediocrità congenita di talune proposte, ma diciamolo subito, la band di Manchester – detto in parole povere – non sa più che scrivere, ed allora prova a spalmare il suo pop centellinato sugli schemi di sempre, ovvero eleganza, dettaglio, poesia e poco altro, ma ciò non basta più per galleggiare alacremente almeno sulle linee di un interesse allargato o, perlomeno, su un minimo sindacale di “in avanti” e l’osare si posta come imperativo da perseguire. Dieci tracce che segnano una sorta di ambientazione senza sfogo, landscapes piatti e uniformi che passano via come acqua di rubinetto in cui la voce di Guy Garvey ne tratteggia qua e la alcune suggestioni, ma è solo un ascolto di passaggio che non rimane oltre che il mero scorrere del running time.
Per la serie “non tutte le ciambelle riescono col buco”, gli Elbow sdoganano un lavoro del quale onestamente se ne poteva anche fare a meno non perche chissà quale ricerca d’altro uno si metta in testa, solamente che accontentarsi di poco non merita, la loro storia è stata una delle più belle avventure sonore di un certo periodo e sentirli relegati nell’angolo della sufficienza in minore dispiace e fa amarezza a molti; rendono poco le ondate di trombe di “Fly boy blue/Lunette”, il ritmo poetico di “New York morning”, le svenevolezze patinate di “My sad captains” o il gattonare tra buio e nebbia barocca “ The blande of night”, ci vuole ben altro per far drizzare le orecchie per finalmente tornare ad esclamare a viva voce “Ecce Elbow”!
Avanti un altro!
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