Per definizione l’assenza è la mancata presenza in un luogo in cui qualcuno dovrebbe trovarsi o si trova abitualmente, ed in alcuni casi sembra impossibile a chi resta, cercare il luogo adatto dove ritrovare e riposizionare quel vuoto che inevitabilmente lascia la persona che la morte si è portata via. È una fatica immane quella che si fa per ritrovare una persona cara in ogni gesto quotidiano, nelle parole dette e ancora di più in quelle che avremmo voluto dire. Si pensa sempre alle cose che si sarebbero potute fare ma poi nella realtà e per lenire ogni forma di dolore basta pensare alle cose che sono state, alle emozioni vissute insieme, ai dolori, agli strappi voluti e no, basta ricordare per mantenere viva quell’assenza. La memoria è l’unico modo per oltrepassare la morte. E se per noi ascoltatori, amanti di musica, fan in generale, quando viene a mancare un artista (che ha delineato, tratteggiato e poi presi per mano verso una strada che ci sembra a tutti gli effetti la nostra, come se fosse qualcuno di famiglia) ci sembra di avere un buco nel cuore che colmiamo attraverso la musica che ci ha donato negli anni, forse è un po’ più complicato se la persona che viene a mancare non solo era un artista ma è stata una persona che in un qualche modo ha camminato insieme a te, ha passato la tua storia, ha vissuto i tuoi momenti peggiori e ti è stato accanto o un passo indietro, qualcuno che sai che capisce più di chiunque altro cosa voglia dire imbracciare una chitarra, qualcuno che ti è stato amico nonostante il mondo attorno.
Ed è il caso di Eric Clapton dopo che Jeff Beck ci ha lasciati.
È anche molto complicato sapere davvero quello che Eric Clapton sente, l’unica cosa su cui si può scrivere è quello che trasmette da quando Jeff Beck non c’è più. Non passa giorno che non lo ricordi, che sia un’intervista o una foto da postare sui social ed è questa chiamiamola così “insistenza” nel volerlo ricordare che fa capire quanto questa morte non solo sia dentro e accanto a Clapton ma è una morte che si è preso sulle spalle, in un certo senso. Ricordare non è mai semplice, perché può risultare anche doloroso, può essere anche soggetto a critiche in questo mondo, però Clapton sa benissimo che ha il compito di ricordare Jeff in ogni modo possibile.
Lo farà nelle due serate dedicate a Jeff Beck a Londra, lo fa come dicevamo prima, di continuo nelle poche interviste che rilascia, lo fa nelle foto che vengono postate sui social, lo ha fatto omaggiandolo nel tour che ha appena concluso in Giappone e lo ha fatto ancora di più con il brano Moon River, che Eric e Jeff avevano registrato poco tempo prima che lui morisse. Forse si chiama destino, forse è solo una coincidenza sta di fatto che Moon River rappresenta il pezzo perfetto per ricordare il passaggio perché in qualunque modo venga suonato o cantato possiede quella serenità e quella calma che restituisce il respiro di cui si ha bisogno, per ricordare il cammino che è stato fatto insieme e per avere ben chiaro che ancora due dei chitarristi più straordinari e importanti del panorama internazionale , guardano ancora dalla stessa parte, camminano ancora sulla stessa strada, attraverso due chitarre diverse. Ma facciamo un passo indietro, alla versione originale interpretata da Audrey Hepburn in colazione da Tiffany, dove viene riprodotto l’incanto dell’innamoramento, di due persone che si mettono in viaggio insieme, perché anche l’amore è un viaggio e il fiume, l’acqua come elemento rappresenta lo scorrere, l’andare avanti nonostante tutto. Ed è così anche nel video del brano reinterpretato da Eric Clapton e Jeff Beck, in versione cartone animato. Da quel fiume che va verso il mare, che indica la strada, da quel mare dalla quale viene fuori una mano gigante che lancia un plettro in aria che poi si trasforma in un disco e poi dall’acqua si erge e riemerge una chitarra che indica un’altra strada, una strada che si ramifica e che nonostante i diversi rami diventa un unico albero, che a sua volta diventa una chitarra che si divide in due e quei rami poi diventano corde suonate dalle loro mani. E poi i passi, il cammino insieme, le chitarre come valigie con Jeff che è sempre rappresentato un passo avanti, anche quando si fermano a guardare la strada lunga davanti a loro, Jeff è davanti, osserva per primo ed in quel momento la canzone sottolinea l’importanza di quel viaggio intrapreso “Wherever you’re going I’m going your way. Two drifters off to see the world there’s such a lot of worlds to see. We’re after the same rainbow’s end“. E poi le due mani che si uniscono, tirano una corda (della chitarra) e la usano come un filo per giocare con la luna, facendola rimbalzare prima da una parte, poi dall’altra ed infine lanciandola insieme lassù. Non c’è da dire molto sull’esecuzione, se non fare un possibile paragone con la versione di Frank Sinatra. Ascoltate la versione di Sinatra e poi subito quella di Eric Clapton e Jeff Beck: hanno la stessa profondità, lo stesso passaggio da un ricordo all’altro, la stessa forza nel voler ricordare qualcosa che si è vissuto intensamente insieme a qualcuno, anche il saper trasformare la tristezza in una sorta di sogno dal quale ci si sveglia sempre insieme, solo che Frank lo fa attraverso la sua voce ed Eric e Jeff attraverso le loro chitarre.
Anni fa, era il 2018, ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto di Jeff Beck ad Ostia antica. È stato il concerto più scioccante al quale ho assistito, perché Jeff Beck ha iniziato a perdere tantissimo sangue dal naso, ma quando dico tantissimo parlo proprio di tanto sangue. Entrò quasi con un’ora di ritardo, pensavamo che venisse rimandato il concerto e dopo avercelo trovato davanti, speravamo davvero per la sua salute che rinviasse l’evento. Lui poi era vestito completamente di bianco dalla testa ai piedi, persino la sua chitarra era bianca. Ma perdeva sangue come un fiume e tutto quel rosso era difficile da capire per chi lo guardava (ed io ero proprio davanti a lui). Ma lui niente, con le mani piene di sangue continuava a suonare, gli lanciarono del borotalco, fazzoletti di continuo ma che non riusciva ad utilizzare perché doveva continuare a suonare. Ad un certo punto, pieno di sangue, teneva il fazzoletto stretto in mezzo ai denti e con un gesto di rabbia lo ha gettato, come a dire che non ne aveva bisogno, che avrebbe continuato lo stesso, sangue o non sangue. Mi ha fatto molta impressione quando ci ha chiesto scusa. Mi ha fatto molta impressione quando si è tolto il fazzoletto dalla bocca e lo ha gettato, perché sembrava che sapesse che la chitarra riconosceva solo le sue mani e il sangue non la toccava proprio. Mentre in molti avevamo paura che gli venisse qualcosa o morisse, lui no e questa sorta di sfida io non la capivo, per questo non ho mai più ascoltato Jeff Beck da allora.
Sono tornata a farlo ieri però, riascoltando Moon River e credo di aver capito ora l’importanza di quel fazzoletto pieno di sangue stretto fra i denti e gettato via e anche le scuse al pubblico. Ognuno di noi ha una missione, chi piccola, chi grande, quella di Jeff Beck è stata ed è suonare la chitarra, ovunque si trovi adesso.