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Recensioni

La Fretta e la Pazienza di Olden

Recensione di Andrea Sanfilippo

Davide Sellari, in arte Olden, sospeso nel nome tra l’egotismo dolce e profondo del celebre personaggio di Salinger e l’arcaismo inglese che nobilita ciò che il tempo ha corroso, giunge con il progetto “La fretta e la pazienza” al suo ottavo lavoro discografico prodotto dall’etichetta indipendente Vrec. Un Lp essenziale nella forma e coeso nei contenuti, una sorta di viaggio iniziatico verso una presa di consapevolezza, un’accettazione lucida e profonda di ciò che la vita ci riserva. Fulcro e sintesi del disco il brano omonimo, impreziosito dal featuring di Paolo Benvegnù, compendio di quelli che sono le diverse direzioni seguite dai nove brani che compongono il disco e che si condensano attorno ad unico punto focale e cioè la necessità di concedere lo stesso diritto di cittadinanza alla felicità e al dolore, come elementi complementari ed ineliminabili delle nostre esistenze.

Una inconfutabile coesistenza che il nostro tempo, intriso com’è di una ricerca costante e superficiale di felicità prêt-à-porter, ottusamente cela e rifiuta, in una furia onnivora che ambisce a consumare tutto e subito, arte e sentimenti, eliminando ogni eventuale, ma necessario, ostacolo. Ed è così che Olden, nel suo esilio volontario tra le conturbanti e fertili di cultura e ispirazione Ramblas di Barcellona, parla senza troppe reticenze delle sue piccole e grandi tragedie personali, guardando con dovuto distacco la palude in cui l’Italia sguazza ostinatamente e orgogliosamente da anni, partendo dal suo vissuto per giungere a considerazioni di carattere universale, per indicare non una via di salvezza ma un percorso di rinascita, che dalla fretta di voler sanare una ferita giunge all’accettazione paziente della dovuta convalescenza.

Forte di una lunga gavetta di cover band, il cantautore perugino vanta nel suo curriculum numerose partecipazioni e riconoscimenti al club Tenco e un sostrato artistico e culturale che spazia dalla migliore tradizione anglosassone fino ai cantautori italiani, primo fra tutti Francesco De Gregori, che con la sua poetica istintiva e criptica lascia un segno profondo nel brevissimo, e perfettamente compiuto, brano intitolato Improvvisamente un giorno, sospeso tra partenze obbligate e desiderio di tornare, tra inutili rimpianti e desiderio di ricominciare a sbagliare, innamorandosi. E l’amore è sicuramente il punto nevralgico di questo disco che, in un andamento circolare dalla seconda traccia Fidati di me fino all’ultima La natura leggera delle cose  (in cui fanno capolino immagini degregoriane di foto abbandonate e filosofie consolatorie di matrice deandreiana ), tra allontanamenti e ricordi, costituisce una sorta di manuale per uscire dalla sofferenza dell’abbandono, una sorta di Remedia amoris dei nostri tempi, in cui così poco tempo è concesso a chi vuol dare tempo al tempo e non accondiscendere alle nevrosi del nostro secolo.

Nevrosi e ansia di arrivare, non si sa bene dove, che si traduce paradossalmente in noia irrimediabile e necessità di facili capri espiatori nell’onirica Cinema, in cui in immagini proiettate e scontate speriamo di ritrovare un brivido nell’apatia di un pianto ormai fin troppo tranquillo, di un’assuefazione all’indolenza che ci narcotizza e consola. E le contraddizioni che rifiutiamo di accettare e assecondare trovano, variamente, nel dettato poetico di Olden la loro compiuta e paradossale rappresentazione in ossimori e antitesi di lunghissimi intervalli, paure annoiate, sorrisi che tramutano in sbadigli, pianti a crepapelle, freni recisi e fortunate solitudini che permettono di emanciparsi dall’onere degli addii. Come nel caso di Ho sognato Jannacci, accorato omaggio al cantautore milanese che con la sua genuina umanità e coerenza artistica diventa contemporaneamente figura amica da rimpiangere e paradigma su cui misurare la nostra deriva culturale incancrenita in brutte canzoni di moda. Presenza che si fa illusione e lascia spazio al disincanto, sia per la morte che per l’amore, con l’impossibilità di accettare che tutto si concluderà con un’uscita di scena dentro un letto zincato, trascinati via a spalla da quel mondo, che in vizi edulcorati e religioni di eterna giovinezza, non accetta il nostro essere nulla. Nullità che inaspettatamente diventa consolatoria in Libellule, svelandoci improvvisamente l’inconsistenza delle nostre ossessioni di fronte all’incomprensibile maestosità dell’universo, una sorta di inaspettata e immeritata occasione di montaliana memoria che si oppone ad ogni pretesa epifanica e profetica.

Perché i sentimenti sbagliano sempre pur non avendo quasi mai torto sulla tracotanza della ragione, come recita Il cuore ha sempre ragione, perché, come ci hanno insegnato, tutto ciò che di bello esiste è destinato a morire in fretta come le rose, ma senza spiegarci come mai, fra petali e stelo, in un inevitabile calvario di graffi tetanici e sconfitte, ci consola il deliberato inganno di un riscatto finale.

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