Articolo di Matteo Pirovano | Foto di Roberto Finizio
Dev’essere davvero strano per Duff passare dai palchi delle gigantesche arene, pestate con la band madre, a quelli dei piccoli club cittadini. Passare dal suonare davanti a folle oceaniche alle cinquecento persone o poco più che gremiscono la Santeria di viale toscana questa sera.
Strano ma visceralmente necessario. Lo spiega a voce durante il concerto, lo spiega con calma nelle 11 tracce che compongono il suo terzo disco solista Tenderness, uscito a maggio di quest’anno per Universal e prodotto dal figliol prodigo del country Shooter Jennings, che lo accompagna questa sera con la sua band formata da musicisti di indubbio talento, tra i quali spicca la bravissima violinista Aubrey Richmond, vero crack dello show.
Prima o poi gli americani sentono la necessità di andare a registrare un disco a Nashville, non si scappa.
Duff è oggi un uomo migliore di quanto non lo fosse all’apice del successo? Non possiamo rispondere con certezza a questa affermazione ma di certo è un uomo più consapevole. Un uomo che è tornato a casa, a riabbracciare la sua gente e il sottobosco musicale nel quale è cresciuto prima di quella fuga post adolescenziale verso la scintillante Los Angeles. Oggi Seattle, la sua città di origine, non è più quella grigia metropoli ubicata ai confini statunitensi dove un ragazzo di nemmeno 20 anni, in spandex rosa e capelli cotonati, poteva vivere. Oggi è una città viva, piena di club dove poter far musica e piena di quegli amici che stasera ha portato immaginariamente tra noi, nei frammenti dei suoi ricordi e nei testi di alcune delle sue canzoni.
Tenerezza è l’imperativo. Il mondo ne ha bisogno e Duff è qui per darcene un assaggio.
Uno show minimale e intimista nel quale traspare l’amore per il country, per il blues e per quelle sonorità così care ai Rolling Stones (Chip Away) che lo hanno accompagnato sin dagli esordi. Non c’è quasi più traccia di quell’urgenza punk che nel 1993 portò su disco nella prima vera fuga dai Guns, nell’acerbo debutto solista Believe in me, o delle prime sperimentazioni sonore accarezzate in una delle prime superband di cui il mondo ha goduto (Neurotic Outsiders).
Non c’è quasi traccia nemmeno del catalogo dei Guns, se non in qualche sporadico ma incisivo passaggio “minore”, come nell’iniziale You Ain’t the first, nella scoppiettante versione di Dust n’ Bones e nella jam session dalla quale è scaturito un adattamento di Dead Horse ai limiti del bluegrass. Unica concessione alla hit in territori Guns n’Roses con la coda di Patience, suonata all’interno di un medley durante il quale la band ha eseguito la storica cover di Johnny Thunder You Can’t Put Your Arms Around a Memory.
So Fine è un vero e proprio regalo ai fan italiani, richiesta a gran voce e ottenuta grazie al battage social dei giorni precedenti che Duff non ha ignorato. Debutto assoluto della canzone nel tour e, a quanto racconta lo stesso Duff, mai suonata prima dalla band se non nel soundcheck pomeridiano.
Lo show, seppur senza soste, sembra diviso in due parti. Una prima più incisiva e più varia nella quale vengono suonate, oltre ad alcune delle già citate cover dei Guns, una rivisitazione del classico dei Mad Season River of Deceit (a dir poco acclamato) e, probabilmente, le due canzoni più riuscite dell’ultimo album: Tenderness con le sue profonde note di piano e l’ispirata Feel dedicata ad alcuni amici del music business che non ce l’hanno fatta come Prince e Chris Cornell sul cui nominativo Duff si commuove visibilmente, abbracciato dallo scroscio di applausi del pubblico milanese.
La seconda parte dello show, a mio giudizio più monotona, ha visto un lungo susseguirsi di pezzi nuovi che, testi impegnati a parte (la strage di Parkland, il tema delle dipendenze contenuto in Falling Down e quello della violenza sulle donne toccato in Last September), ha rallentato un po’ troppo il tiro di un concerto sino a quel momento più entusiasmante dal punto di vista della partecipazione del pubblico.
Unica concessione al punk, tanto caro al Duff degli albori, con la cover del classico dei Clash Clampdown, una scarica di adrenalina che ci risveglia dal torpore giusto in tempo per prepararci al finale di serata con il bellissimo giro armonico della nuova Don’t Look Behind You e la crepuscolare Deepest Shade del duo Dulli/Lanegan.
Lo show di Milano chiude il tour di Tenderness e, temporaneamente, la parentesi intimista di un bassista cinquantacinquenne che a breve tornerà a calcare i palchi delle arene più famose del mondo con i suoi Guns n’Roses. Se ne va salutandoci con la borraccia in mano, ennesimo monito di un uomo conscio del suo ruolo in un mondo avviato all’autodistruzione, un mondo che saremo ancora in grado di salvare, se solo lo vorremo, uniti contro una classe politica che va e viene. Tutti uniti noi che c’eravamo, ci siamo e , si spera, sempre ci saremo.
Clicca qui per vedere le foto di DUFF MCKAGAN a Milano (o sfoglia la gallery qui sotto).
DUFF MCKAGAN – La scaletta del concerto di Milano
You Ain’t the First (Guns N’ Roses)
Breaking Rocks
Tenderness
Chip Away
Feel
Wasted Heart (Loaded)
River of Deceit (Mad Season)
So Fine (Guns N’ Roses)
Dust N’ Bones (Guns N’ Roses)
Last September
It’s Not Too Late
Falling Down
Milan We Love You
Cold Outside
You Can’t Put Your Arms Around a Memory / Patience
Parkland
Clampdown (The Clash)
Dead Horse (Guns N’ Roses)
Don’t Look Behind You
Deepest Shade (Mark Lanegan)
