Articolo di Marzia Picciano | Foto di Federico Buonanno
A Simon Green, in arte Bonobo, ieri 3 dicembre in concerto al Fabrique di Milano con Radar Concerti per predicare quel colpo al cuore che è il suo nuovo lavoro, Fragments, valso due giustissimi Grammy, andrebbe fatta una statua. Uno, perchè ci spiega, sia in ascolto streaming che dal vivo, come l’elettronica sia l’ubuntu nel caos dell’individualismo cronico della nostra generazione, e non devi essere un fanatico del genere e della scena di Bristol per apprezzarlo. Due, perchè ti scalda anche se fuori è appena Dicembre, e le condizioni climatiche non sono ancora del tutto avverse ma fastidiose a morte.
Le mie presenze al Fabrique sono ormai segnate da una insistente e irritantissima pioggia, insomma pare di stare a Bruxelles o Londra invece sulla carta sei nella sunny Italy (ammetto che non ho ancora affrontato bene il trasferimento a Milano dopo anni a Roma). Tre perchè, nonostante questo, la calca e le file al bar etc, ho soprasseduto su tutto. Bonobo mi ha fatto digerire meglio i diecimila spintoni che mi sono beccata, mi ha proiettata nella dimensione spazio tempo che attendo come il ponte di sant’Ambrogio, il metaverso che mi merito, in cui siamo tutti brutali poligoni e abbattiamo le differenze concentrandoci sul bello del nulla immanente di un mondo digitale – con una soundtrack da paura.
Arrivo in anticipo rispetto alla mia usuale tabella di marcia da ritardataria, il tempo di assimilare quell’alcool necessario per affrontare una serata dai grandi movimenti interiori, in breve un film di Guadagnino, dove la superficie di calma piatta proietta in maxi schermo intorno a me gli avviluppamenti degli instancabili sentimenti del mio stomaco, fino a esplodere in un totale, feroce non-sense.
In questo modo riesco a godermi l’apertura di Poté, questa giovane emergente divinità in giacchetto a righe e pantalone bianco (vanta collaborazioni con Damon Albarn), chino sulle tastiere si perde nella Medina del suo sound accattivante con cui ha scaldato una folla ancora troppo infreddolita. Open Up è un pezzo che si sposa benissimo con lo stile di Green e il gin tonic amarissimo che succhiavo malamente dalla cannuccia, ed è già entrato, anche solo per la grandissima presa a bene, nella mia lista dei preferiti Spotify.
Finalmente alle dieci e qualcosa Green fa il suo ingresso sul palco, parte subito insieme al boato di chi non aspettava altro, saluta, ringrazia Milano, sono cinque anni che non tornava, dopo aver fatto sold out all’Estragon di Bologna la sera prima, stasera è il momento della Capitale europea d’Italia e anche qui la popolazione locale non si è fatta pregare, anzi sono accorsi numerosissimi anche da altre parti d’Italia per il DJ Vate made in UK, based in LA di quello che secondo me è quanto di più vicino al suono dell’Iperuranio platonico, che ti fa ballare, ma anche riflettere e sicuramente sognare mentre vaghiamo da un concetto di Idea all’altro e ci beiamo, di volta in volta, della purezza del principio a cui veniamo esposti.
Si inizia con la impalpabile e passionale Polyghost, passa felino a Rosewood che ieri è suonata con un’incredibile dolcezza, forse inaspettata rispetto a quanto il brano spinga realmente sui nostri abbonamenti Spotify, con delicatezza gira su Counterpart ed entra nel purgatorio del trip hop con un’intensissima Surface.
Questa prima parte è estremamente intima, io sono assorta, nonostante gli spintoni, ipnotizzata dai visual di varie nature essenziali, terra acqua monti (sembra di essere nella mente di Tom Cruise mentre cerca i nei sul seno di Penelope Cruz in Vanilla Sky) e dal lavoro incredibile di tutti gli attori sul palco. Mike Lersirge passa con nonchalance dal sassofono al flauto e poi lei, Nicole Miglis, la voce che Green ha scelto di portare in tour per interpretare i pezzi di un disco scritto da solo nei primi mesi della pandemia ma con estremamente chiaro in mente i ruoli di tutte le parti che lo avrebbero reso “reale”, e anche in quelli precedenti non ci fa rimpiangere i precedenti interpreti.
Green è dietro, sembra in seconda fila, imbraccia il basso e nel frattempo si da da fare con le tastiere e la consolle (e scusate, lo devo dire: fregno come pochi), non nasconde il suo essere la mente, orchestra con attenzione le sue marionette sul palco, si concede un virtuosismo su quattro corde e sassofono che ci porta nel post rock di Mogwai, e periodicamente preme il grilletto sulla nostra voglia di ballare tornando ai suoi lavori precedenti con Kiara e l’ipnotica Cirrus e saltando in avanti con la freschissima ATK, dove finalmente emerge quella base di clubbing colto e contaminato da world music che ci fa amare, letteralmente, il downtempo di Bonobo e sentirci dei privilegiati ad essere lì a sentirlo e ballarlo.
La sinergia tra Green e Nicole è palpabile. Miglis domina il palco ogni volta che lo calca ed eleva i cantati di Green sulle batterie e il basso, una Karen O dalle vocalità quantisticamente astratte di Imogen Heap; questo intenso e drammatico femminino magico in mise da Harajuko Girl viene a specificarci che la serata si muoverà tra estremismi di intimo calore, irradiato senza lesinare grazia, e violentissime sfregolate di neon e e sound di chillwave.
Se con Tides la Miglis definisce i contorni di quella che è la community dei fedeli di Bonobo, i cloud people che vivono nel grigio e mai rimangono, come una marea di spiriti positivi che non possiedono e non possono essere posseduti, nei vocalizzi di Break Apart segna la linea Gustav dell’intero show, un apice di bellezza nel decantare ciò che magicamente si rompe e mai più può essere ricomposto. Il pezzo è lo spartiacque dello show, il portone che chiudi e fino all’apertura dell’altro è una festa infinita con palle stroboscopiche e neon, bellissima e tremenda allo stesso tempo, dalla disperata No Reason (qui la Miglis non ci ha fatto rimpiangere Ryhe), alla tribale Otomo per concludere con l’esplosivissima Kerala.
Che dire, chi era presente un po’ lo sapeva che non sarebbe stata una semplice sessione di musica qualità, quella che puoi liquidare il giorno dopo con i soliti, banali commenti sulla bravura dell’artista di turno che tu, persona che pensa di avere un livello medio alto di cultura tale da apprezzare e capire le sintassi di generi come il nu jazz (esiste termine più radical chic? Parliamone), condividerai nel brunch della domenica. No, Bonobo ci ha regalato un momento di sanguinario pathos, ha accompagnato il nostro personale percorso di esplusione del farmacos di fine settimana, la medicina che serve a noi piccoli e potentissimi Dio artefici della nostra fortuna che ormai è un giochi senza frontiere ad arrivare alla fine del mese, per cui ogni domenica da bravi Altissimi e Onnipotenti Signori dell’Emirato della nostra esistenza ci riposiamo e facciamo la lista della settimana a seguire, marcando a penna quello che ci siamo scrollati di dosso, il dramma che ci aspetta, la Terra Promessa che agogniamo.
Bonobo ci ha fatto spazio al Tempio per liberare i nostri Es primati dalle maglie di soffocanti e iperperformanti super-Io e concerderci un momento di amore, profondo, per noi stessi, mettendo la nostra onnipotente voglia di controllare tutto, incluso il disagio belligerante che mi avrebbe altrimenti portato a picchiare il fautore di tutti gli spintoni di ieri. Grazie Bonobo, torna presto, in tutti i sensi, che qui dobbiamo affrontare anche il 2023.
Clicca qui per vedere le foto di Bonobo in concerto al Fabrique (o sfoglia la gallery qui sotto)
BONOBO: La scaletta del concerto di Milano
Polyghost
Rosewood
Counterpart
Surface
Tides
Shadows
Kiara
Bambro
Cirrus
Outlier
ATK
Break Apart
No Reason
Linked
Age of Phase
Otomo
ENCORE
Stay the same
Kerala
Daniele
09/12/2022 at 15:05
Condivido tutto in pieno! Aggiungo soltanto che il finale di Kerala dopo l’assolo del tastierista a metà brano è stata una vera chicca. Ho scoperto Bonobo nel 2013 e finalmente ho assistito ad un suo concerto dal vivo, spero torni presto in Italia!