Articolo di Serena Lotti | Foto di Davide Merli
I Khruangbin non sono di questo mondo. Non parlo del vecchio mondo, non parlo della cara vecchia Europa, essendo americani potrebbe essere questa un’affermazione misinterpretabile. Intendo dire che non sono di queste latitudini terrestri, non sono umani, stanno a milioni di metro campione dal nostro pianeta ed anche se ai più può sembrare eccessiva come affermazione (non sono i Pink Floyd, i Beatles o David Bowie) vi invito ad andare a sentirli dal vivo e poi mi scriverete qui sotto nei commenti se affermo idiozie.
Il power trio texano, composto da Laura Lee Ochoa (basso/voce), Mark Speer (chitarra/voce) e DJ Johnson (batteria/tastiere/voce) è diventato una specie di strano e affascinante culto negli ultimi anni, iniziando a raccogliere i consensi del largo pubblico dopo l’uscita del quarto lavoro in studio A La Sala, disco con il quale erano decisamente attesi al varco del mainstream. Prendendo spunto più genericamente dal funk thailandese degli anni ’60 (il loro nome si traduce in “Engine Fly” in thailandese), la band propone un’affascinante proposta di brani strumentali dai magnetici suoni psichedelici che sembrano ispirarsi, tra le innumerevoli moltitudini di influenze, alle colonne sonore dei film di Tarantino e al surf-rock cool, alla musica afghana e allo psych-rock della schiatta più raffinata. Nel 2010 sono i supporter del tour di Bonobo che include A Calf Born In Winter nella sua compilation Late Night Tales del 2013. Successivamente pubblicato come singolo nel 2014 è seguito dall’EP di cover History Of Flight del 2015. L’album di debutto The Universe Smiles Upon You esce pochi mesi dopo ed è un grande successo: intriso di suoni psych ed esotici viene registrato nella casa spirituale dei Khrunagbin, un remoto fienile nella campagna del Texas. La formazione del suono unico e individuale dei Khruangbin è compiuto. Il 2016 è decisivo; Father John Misty li invita a supportarlo nel suo tour . Da lì il passo per un primo tour da headliner negli Stati Uniti è breve: Con Todo El Mundo arriva dopo 2 anni e attinge a piene mani nei suoni mediorientali e spagnoli in contrasto con le influenze thailandesi del primo album. Altro disco, altra contaminazione. Una continua ricerca dell’identità che è identità stessa. Inizia poi il sodalizio artistico con Leon Bridges e la pubblicazione di Texas Sun. Nel 2020 la band è in rampa di lancio. Mordechai non delude affatto. C’è una miscela sapientemente fusa di surf rock, psichedelia, world music, cultura spagnola e la costante voglia di nuove influenze. Siamo nel 2024 e arriviamo al quarto album A La Sala dove il trio mette insieme 12 tracce, recuperate da un personale ed intimo archivio: ancora una volta assistiamo ad una miscela di funk, surf music, reggae ma anche blues desertico e folklore del sud-est asiatico. È accattivante, rilassante e soprattutto, immediatamente riconoscibile. Abracadabra. La magia è compiuta.
Il segreto? Un ingrediente magico che non sapremo mai. Per ora ciò che sappiamo è che la fluidità, caratteristica che li rappresenta al meglio, è parte integrante di quella formula alchemica che tiene insieme come uno slime influenze di ogni tipo e che da vita ad un suono unico: il khruanbingese un mix ultraterreno e arrapantisismo di stili, creato per ammaliare e irretire, un linguaggio non linguaggio che abbatte le barriere linguistiche grazie ad una formula vocale minimalista e praticamente del tutto strumentale. Suggestivo e democratico, raffinato e nel contempo accessibile ai più. Comprensibile sì, ma non per tutti.
L’Alcatraz è strapieno, il pubblico a differenza della band delude. Delude moltissimo. Non passano che pochi minuti e quelli che avrebbero dovuto essere devoti discepoli si trasformano in tamarri muniti di cellulari perennemente in ripresa video che ci impediranno di godere per quasi tutto il live. Quelli che mi aspettavo avrebbero ascoltato immersi in un silenzio ecclesiastico sono finiti a urlare, fumare e spintonarci per buona parte del concerto con tanto di redarguizioni da parte di chi invece era davvero lì per la musica, non per le storie su IG.
Italiani brava gente ma pessimo pubblico quando vuole.
Torniamo sul palco che è quasi sempre immerso nel buio e dove si impone una simbolica hacienda, con tanto di grandi e curiose finestre.
Laura Lee, l’incantevole Creamy del rock e Mark Speer indossano le loro caratteristiche parrucche nere con le frange, mentre DJ Johnson tiene banco dietro la batteria. La band si tuffa nel primo set, che è tutto A La Sala. Ci raccontano così durante questa prima e romantica parte del loro ritorno a casa, spogliando gli strati composti delle loro influenze per rivelare il loro sound di base.
E ci spiegano così, suonando magistralmente, cosa significhi andare oltre quell’atto rivoluzionario che è imbracciare uno strumento. I Khruangbin vanno oltre la musica, dominando il palco e catturando intensamente il pubblico attraverso intense suggestioni melodiche, complesse costruzioni sonore e movimenti sinuosi ed eleganti. La loro presenza sul palco è un passo a due, Laura e Mark sono sempre l’uno intorno all’altro muovendosi con passi e gesti che sembrano coreografie in un perfetto esercizio di sinestesia che tiene insieme colori, corpi e suoni.
E parte la contemplativa e rilassante May Ninth, carica di toni nostalgici e arricchita dai delicatissimi arpeggi di Speer e dalle melodie vocali impregnate di spleen (“Waiting for May to come, hoping for the rain”). La mia preferita della prima parte.
Si continua sull’erotismo di Ada Jean, sulle suggestioni acquatiche di Farolim de Felgueiras (che parla di un faro affacciato sull’Atlantico dalla costa portoghese) e sulle citazioni cinematografiche di Juegos y Nubes. Non solo gongolato abbiamo ma anche ballicchiato sulle note groove funk di Hold Me Up (Thank You) e sui toni swing dell’acchiappante Pon Pón, punteggiata da una successione di numeri pronunciati in varie lingue.
Il primo set si conclude con la tempesta di Les Petits Gris, veniamo cullati dai suoni della pioggia, dai tuoni e da acque impetuose. Le finestre gocciolano di pioggia.
C’e solo un breve spazio per rompere l’onirico e prendere a parolacce quelli che ci stanno di fronte, noi che ci eravamo elevati ad un livello superiore, quasi ultraterreno, torniamo nei mendri della peggio periferia milanese e siamo costretti a a blastare i dissidenti che fumano e urlano invece di stare nel mistico e nel surreale come noi, come è giusto che sia.
Torniamo nella hacienda dei Khruangbin, nella loro casa della mente e dopo una notte di pioggia c’è lo spazio per riaccendere lo spleen con un manto di stelle luminose. E poi ancora un cielo terso e carico di nuovole bianche ed è ancora notte subito dopo, una notte senza peso e senza stelle, blu e profonda. I suoni del vento, dell’acqua, il suono delle foglie e dei mari, dell’erba e delle praterie, è un altra sfaccettatura del khruangbinese, un linguaccio fonosimbolico, onomatopeico ed universale. E’ stato come addormentarsi durante il temporale e svegliarsi da un sogno in un altro sogno. Siamo stati riportati in un’altra era dei Khruangbin, il secondo set ci ha portato attraverso parte della loro precedente discografia e si è aperto con un omaggio all’Italia.
La cover di Ennio Morricone Le Clan des Siciliens è commovente. E’ l’ora della musica della Terra, il flusso sonoro di questa seconda parte e più venato di elettronica e thai funk rispetto alla crepuscolare e spirituale prima parte, più groovy, allegro e dal ritmo più veloce. Gli esperimenti audaci di August 10 e August 12 ci destano dal sogno e in un attimo siamo trasportati ancora lontano dalle correnti rilassanti dei Khruangbin, aromatizzate da un medley di jazz e surf rock, dentro i caldi trilli di Speer che ci fanno ammorbidire tutti i muscoli, i ritmi serrati e graffianti di Maria Tambien, la combo the best of di So We Won’t Forget e Pelota, pericolosamente ficcanti con quelle melodie latin-rock intrise di Iran e Spagna ci portano nel qui ed ora, ma stiamo sempre volando.
Siamo in encore, su White Gloves e People Everywhere assistiamo all’ennesima architettura suggestiva di melodie leziose e spaziali con dinamiche che cambiano di continuo, ora è un set jezz lento e disteso, ora un afflato nostalgico e crepuscolare, ora un party all’Odyssey sfacciatamente groove e disco funk.
Questo live è stato pieno di intenzioni esplorative che si sono alternate ad esercizi di stile e virtuosismi infiniti, ma è un concerto di fatti oltre che di suggestioni, un crescendo emozionale costruito da ritmi fluidi e tempi ondeggianti. La lezione che ci portiamo a casa e che si può trascendere un singolo genere restando unici e riconoscibili, attraverso anche un esemplare dialogo di botta e risposta tra batteria, basso e chitarra e una proposta di musica esperenziale che passa anche attraverso un’esperienza visiva immersiva. Il fumo che aleggia nell’aria, mescolandosi ai suoni erotici della chitarra di Mark, le luci che proiettano cascate di colori cambiando a seconda dei crescendo e abbassandosi nelle pause, come un ideale quarto, quinto strumento.
È un’esperienza spirituale ed umana al tempo stesso, è l’immaginazione che incontra l’esperienza, è un benvenuto nella notte, sotto la pioggia, mentre bussi alla porta di una casa, la casa inclusiva ed esclusiva dei Khruangbin, la casa dove chiunque può trovare accoglienza, scoprire l’essenza mistificante della loro musica, l’incarnazione della semplice verità che a volte le parole non possono svelare. Khruangbin è fluttuare tra le nuvole, vedere il mondo dall’alto. Khruangbin è sapere che niente è troppo grande e che tutto può essere alla nostra portata. Anche il sogno più ardito può realizzarsi, basta fa scivolare un disco dei Khruangbin nel giradischi e si accende la magia.
Sei nel deserto e stai mangiando un peyote.
Sei già in viaggio, ma sei seduto sul divano di casa tua.
Tu ami i Khruangbin, solo che non lo sai ancora.
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Scopri la scaletta del concerto dei KHRUANGBIN a Milano
PRIMA PARTE
Fifteen Fifty‐Three
May Ninth
Ada Jean
Farolim de Felgueiras
Pon Pón
Todavía Viva
Juegos y Nubes
Hold Me Up (Thank You)
Caja de la Sala
Three From Two
A Love International
Les Petits Gris
SECONDA PARTE
Il Clan Dei Siciliani (Ennio Morricone Cover)
August Twelve
August 10
So We Won’t Forget
Pelota
Evan Finds the Third Room
María también
ENCORE
White Gloves
Time (You and I)
People Everywhere
Edoardo
13/11/2024 at 21:10
Salve. La canzone indicata nella liata come aust 10, credo sia un errore di battitura perché è august 12, poi viene august 10. Saluti!
rockon
13/11/2024 at 21:51
Grazie Edoardo, abbiamo sistemato!