Articolo di Umberto Scaramozzino
Sottovalutare e catalogare frettolosamente un artista come Daniel Norgren sarebbe estremamente semplice. Un cantautore da “tradizione”, verrebbe da dire, qualsiasi cosa questo significhi. Uno dei tanti menestrelli che pur venendo dal nord dell’Europa – per la precisione dalla Svezia – potrebbe tranquillamente incarnare lo spirito nostalgico della narrazione rock, blues e folk americana. Giusto? No, niente di più sbagliato. Norgren è anzi molto abile nel ribaltare quella poetica e discostarsi con leggerezza dai capisaldi come Bob Dylan e Neil Young, per collocarsi in un territorio di destrutturazione.
Proprio con l’ultimo album, intitolato Wooh Dang e uscito ormai cinque anni fa, il cantautore svedese ha sublimato una sua visione mistica e rurale che lo rende unico in un panorama in cui anche solo emergere è difficile se non si lancia il boomerang della one-hit wonder, ovvero il singolo che ti catapulta nel mainstream per poi farti vivere alla sua ombra.
A emergere non sono i momenti singoli ma le suggestioni, non sono i ritornelli ma le intuizioni melodiche, non sono i virtuosismi canori ma le armonizzazioni dal fascino irresistibile. Tutto è fatto a modo suo. Tant’è vero che passa dal registrare album in casa, ricorrendo a un registratore a cassette a quattro canali, al farlo in un’isolata fattoria a pochi passi da lì, con più strumentazione ma con gli stessi intenti da artista indipendente al riparo dalle logiche dell’industria.
In questa forte dicotomia tra ciò che dovrebbe essere un cantautore folk contemporaneo e ciò che è Daniel Norgren, vive il segreto di un artista capace di farsi strada senza compromessi e arrivare oggi a riempire i piccoli club di tutta Europa di persone curiose e pronte a lasciarsi stupire. Passando in mezzo alla platea, i cinque musicisti salgono sul piccolo ma accogliente palco dello sPAZIO211 di Torino e si dispongono a semicerchio, con il frontman al pianoforte di spalle al pubblico, nascosto all’ombra del suo cappello. L’avvio lascia tanto spaesati quanto affascinati: sembra quasi difficile individuare la provenienza dei tanti suoni che si intrecciano e vanno a comporre il variopinto paesaggio sonoro del cantautore originario di Borås.
Norgren non casca nella trappola di impersonificare il comodo stereotipo del cantautore folk e risulta così molto a fuoco. Non c’è nulla di costruito o scontato nel suo percorso artistico e nella sua proposta dal vivo. L’unico momento vagamente ruffiano è quello in cui si toglie con veemenza il berretto, per poi scagliarlo a terra e ricorrere al motto “voglio guardarvi tutti”, con uno smagliante sorriso da repertorio. In realtà è una mossa assolutamente funzionale, perché abbatte quel muro sottile ma consistente che sembrava essersi creato in avvio di concerto, permettendo alla platea di immergersi ancora di più nelle atmosfere della band. I pochissimi centimetri che separano la prima fila dal palco vengono annullati e da lì in avanti lo show assume i contorni di un intimo secret show tra accoglienti mura domestiche.
Nonostante questo non sia un concerto da brani irrinunciabili e si tratti di una performance organica, il più longevo brivido lungo la schiena arriva come da copione con As Long As We Last, singolo dell’ottimo album Alabursy che è diventato noto a una nuova fetta di pubblico per essere il cardine della colonna sonora del premiato film “Le otto montagne”, adattamento dell’omonimo romanzo del 2017 di Paolo Cognetti, scritto e diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Questo è il pezzo da portarsi a casa e riporre sotto al cuscino prima di dormire, ripensando a quanto sia stata bella e surreale questa serata.
Si nascondeva in bella vista, Daniel Norgren. Era a pochi passi da noi a fare cose notevoli, ma c’era bisogno di un film campione d’incassi con Alessandro Borghi e Luca Marinelli a farci ricordare di lui e farci aprire gli occhi per scorgere ciò che si nascondeva sotto la superficie. Ma che fortuna: ci saremmo persi un artista più unico che raro.