Articolo di Marzia Picciano
Se ve lo state chiedendo: “cosa ci fa RockOn al MUBI Fest di Milano?“, nella sua prima edizione italiana, dopo aver toccato molteplici altri luoghi dell’imaginifico mondiale, da Rio ad Amsterdam, lo scorso weekend del 13-15 dicembre? Semplice: ci prendiamo una pausa dalla musica per osservarla meglio da un altro lato.
Scherziamo, non ci siamo persi proprio nulla anzi, eravamo dove bisognava essere (dalle feste di Capossela al Carroponte ai nuovissimi arrivi degli October Drift al Legend), ma eravamo anche dove meno pensavamo di arrivare, ad un festival dedicato al cinema, che poi non é troppo corretto da dire. Perché, per parafrasare Novecento di Baricco che pensa di voler scendere dalla nave per vedere il mare da un’altra prospettiva, con un’altra vita dietro e nuove lenti e nuovo stupore, a volte per capire la musica meglio e quello che vediamo e ascoltiamo abbiamo bisogno di vederla sotto lenti nuove.
E così é andata in questo weekend. Alessandro Del Re, Senior Programming Manager di MUBI Italia e già direttore artistico dietro diversi film festival italiani dal respiro internazionale, iniseme al suo team ha deciso di portare molta della sua visione nel primo appuntamento italiano della piattaforma itinerante di MUBI, supportato dal partner The Vision. Lo stesso si puó dire della location scelta, l’ADI Museum di Milano, casa della storia del design, giustamente nascosta dalla follia collettiva di Sarpi e Moscova in un cortile interno dal sapore industriale che si apre come uno stargate per un mondo molto più composto, molto più attento, meno di fretta.
Più offerte di contenuti, come da piattaforma (proiezioni, incontri o talk, musica, entertainment). Diverse proposte di film, corti o lungometraggi, nuovi o meno, e in quest’ultimo caso, riportate sotto nuova luce come appunto già detto (ad esempio: proporci la visione ‘a sorpresà di Her nel tardo pomeriggio della domenica di chiusura, per me, é stato un colpo al cuore, più che altro perché non lo vedevo da 10 anni) si sono susseguiti ininterrottamente per tre giorni, dalla sessione di corti “Piccoli Film, Grandi Nomi” che tra gli altri comprendevano opere di Sofia Coppola (Lick The Stars) e di Bong Joon Ho (Incoherence) alle Prime migliori Volte di esordi.
Questi proiettati ogni giorno almeno due volte in cicli di visione racchiudevano il vero senso di MUBI, la capacità di guardare oltre il senso classico del senso ed esplorare il resto, la stessa psiche di un regista, dare un senso alla sua opera e non fornire un mero catalogo (la selezione é ancora visibile sulla piattaforma). É questo anche il senso del progetto che sarà live il prossimo anno (ed é ancora in itinere) di creazione di una selezione di film a opera di Luca Marinelli, attore tra i protagonisti dell’ultima serata in uno speciale talk di annuncio della collaborazione e che é poi é stato prodromico alla proiezione del piccolo capolavoro di Spike Jonze che ha finito per farmi lacrimare (come altri in sala).
Questo del resto é MUBI ed é quello che lo differenzia da altre piattaforme di streaming, oltre alla presenza di una parte “social” che lo rende di fatto un cineforum digitale: la volontà di non fornire semplicemente un servizio di streaming, ma una comunità. Per questo no surprise se in tre giorni c’é capitato di rivedere il disarmante Shiva Baby o il dantesco The Fall di Tarsem, restaurato in 4K, magari in questo caso con l’artista in sala. Anzi proprio in questo caso diventa evidente il ruolo di MUBI: la ri-scoperta di quell’epopea fantastica del regista rumeno non sarebbe stata possibile senza MUBI. A volte, come dire, sarebbe bene lasciare da parte i nostri sentimenti luddisti.
Stessa cosa si puó dire della scelta di registi come Alice Rohrwacher che ha dominato nella giornata di sabato insieme al regista Alexandre Koberidze, per l’incontro precedente alla proieazione di WHAT DO WE SEE WHEN WE LOOK AT THE SKY?. In una specie di onirismo assorto i due hanno dialogato sulla dimensione del cinema chiedendosi anche quale sia la sfida per il regista nel fare cinema e farlo capire.
La Rohrwacher ha detto bene, fare cinema vuol dire vedere, e non c’é dubbio che vedere sia una cosa difficilissima. Sarà per questo che ispirata dal suo stile ermetico ma non lezioso sono scesa nella sala di sotto per vederla presentare il corto Allegoria Cittadina, storia di come reinventare, insieme all’artista francese JR, il ruolo di un’impalcatura di lavoro in un teatro e farne una scenografia perfetta, se non il protagonista nascosto di una quantomeno chiara ed eloquente rappresentazione moderna del mito della caverna.
Guardare alle cose che ci circondano sotto luce nuova sembra anche essere il leitmotiv poco nascosto che ha collegato tutte le opere presenti, a partire dalla prima (e qui che prima) di Queer di Luca Guadagnino, ad aprire le danze del festival. Poco prima, Giulia Cavaliere aveva intervistato Francesco Bianconi de I Baustelle per il MUBI Podcast (realizzato per Chora Media, che poi ha curato diversi momenti della kermesse con talk dedicati), il primo degli appuntamenti con la musica – a seguire si sarebbe svolto di DJ set della star emersa da XFactor (ma chi non é emerso da lì?) N.A.I.P.. Già nella prima serata é evidente l’idea di community e quindi anche di un approccio abbastanza uniforme rispetta cosa, intorno a cosa si va a creare questa comunità di intenti, perché non possiamo dire solo cinefili.
Si parla di umanità odierna, di ansia, accettazione, comunicazione e vocazione, e si, sono queste cose sono tutte collegate tra di loro. Il momento perfetto per comprendere appieno tale connessione si é offerto sabato sera, con il co-regista Sam Crane in sala per la proiezione di quel miracolo cinematografico chiamato Grand Theft Hamlet (vincitore del premio Best Documentary Feature al SXSW di quest’anno) che al di là del contesto che avrà “triggerato” i fan del gaming di GTA e non solo nasconde neanche troppo bene tutto il realismo di vite in pandemia, mai mostrate, mai concrete davvero, palesate solo attraverso i sospiri e il sarcasmo di un role game interminabile (400 ore di ripresa). Che la vita sia un insieme di NPC che dobbiamo far saltare in area?
Chissà. Per il resto se non fossimo stati qui questo we, probabilmente saremmo stati siamo presi da mille cose, ci saremmo fatti sfiancare da infiniti bug del sistema. Come ce ne rendiamo conto? Non potevo essere più felice di sprofondare nel silenzio di una proiezione o un talk, ascoltare e basta, e attivare – davvero – il cervello.
Anche perché da quando metto piedi nell’ADI Museum é infatti chiaro che non é un posto dedicato a esperti di monoculture. Celebrando il content in piattaforma lo si é allargato a coprire e scoprire nuovi ambiti, ulteriori connessioni. Per questo diventa facilissimo capire il grand finale con Margherita Vicario e Dade (nome d’arte per Davide Pavanello, voce dei Linea 77 e musicista di Salmo etc etc etc) che spiegano il making of di Gloria! opera prima della Vicario come regista e capiamo come sia stata una prova davvero sfidante, fatta da chi la musica la conosce bene, per cercare un connubio ancora più forte tra musica appunto e cinema, racconto. Con tanto di performance finale al piano di Margherita e Galatea Bellugi, protagonista del film, nel pezzo scritto per lei dalla cantante (in realtà, dice la Vicario, dopo un’enorme delusione sentimentale, ma vedete alla fine che non si butta via mai niente?).
Quindi sì la musica c’é stata, e per dirla a mio avviso, a parte poche eccellenti eccezioni, ha dimostrato anche come la dimensione del cinema e di quella musica che ne é connessa, in questo Paese, sia prevalentemente romana come punto di partenza (e anche in sala, era chiaro che buona parte venisse da sotto il Rubicone). La musica c’é stata, anche di più di un dj set e due talk. Era onnipresente nelle prime, nei corti. É stato come vedere il mare dalla terraferma, o da dovunque non lo vediamo con chiarezza.