Articolo di Matteo Pirovano
Ricordo come se fosse ieri quell’ormai lontana estate del 1993 quando, poco più che quindicenne, solcavo le alberate strade della provincia del basso Alessandrino a cavallo del mio fidato mezzo a due ruote, rigorosamente ad impatto ambientale zero visto che l’ansia materna non mi concedeva di inquinare il mondo, al pari dei miei coetanei, con un Fifty top desiderato, ma mai arrivato.
Sempre con le cuffie nelle orecchie, collegate a quel primo e ingombrante esemplare di lettore cd portatile che dovevo ribaltare affinché funzionasse, voluminoso al punto da costringermi a munirmi di zainetto per trasportarlo. In quell’estate, su quella bicicletta, libero da quella compulsiva necessità di cambiare pezzo che mi stressa oggi, ho fatto la conoscenza di alcuni degli artisti più significativi di quella decade. Tra di loro Evan Dando e i suoi Lemonheads, una band dalle radici punk, svoltati al “pop” con l’uscita di quella perla cristallina che è “It’s a shame about Ray”. I Lemonheads non hanno cambiato la storia della musica, ma quel disco e il suo successore “Come on feel the lemonheads” sono stati la colonna sonora di chi, allora quindicenne come me, sognava sulle note easy rock delle quali quei due dischi erano intrisi.
Mosso da uno strano mix di curiosità e affetto, mi avvicino al Biko come se dovessi rincontrare un amico che non vedo da anni, quel ragazzo col quale giravo nei torridi pomeriggi estivi di una ventina d’anni fa. Ritorno d’incanto adolescente, parcheggiando per un paio d’ore, insieme all’auto, le ansie dell’età adulta, e mi avventuro verso il locale.
Quando arrivo il locale è ancora vuoto, ma fortunatamente non tarda a riempirsi. Dando riesce a radunare un paio di centinaia di persone, meglio di quanto fece nell’ultima apparizione Italiana datata 2008. Il compito di scaldare i presenti è affidato a Sarah Johnston, cantautrice Canadese dal “glorioso” passato (una delle tre cantanti soul dei Bran Van 3000), oggi apprezzata performer chitarra/voce.
Spiazza tutti i presenti, me incluso, per tecnica e composizioni, raggiungendo l’apice in una bellissima cover acustica del classico “Eyes Without a Face” del buon Billy Idol. Alla fine mi comprerò il cd. Bello.
Arriva quindi il turno di Evan. Non ci sono roadies, non ci sono 10 chitarre. L’unica presente sul palco è quella abbandonata pochi istanti prima da Sarah, e proprio di quella Evan s’impossesserà per dare il via alla sua esibizione milanese, non prima di essere ritornato nel backstage a recuperare un plettro dimenticato chissà dove.
L’esibizione è quella che ti aspetti. Minimalissima. Una luce fissa in viso per tutta la durata della performance, poche parole, una sola chitarra, nessun orpello.
Dando è sempre stato questo in fondo, anche quando, anni fa, calcava con i suoi Lemonheads palcoscenici ben più prestigiosi del Biko, e davanti a folle decisamente più numerose.
Il concerto non dura molto, poco più di un’ora, lasso di tempo nel quale Evan alterna alcuni classici a pezzi dei suoi album da solista .
Tutto viene sussurrato, un po’ sgraziatamente talvolta, tutto ad occhi chiusi, trasognante.
Dando è artista umorale. Questa sera ha deliziato il pubblico presente con una performance struggente, poetica, intensa, una delle due espressioni che coesistono in lui, in netta contrapposizione con quell’ardore punk mai sopito che aveva fatto da leitmotiv al concert elettrico e totalmente in distorsione, di sette anni fa.
Dopo una ventina di pezzi, tra i quali spiccano due duetti con la bravissima Sarah, Evan sgancia la chitarra e l’appoggia a terra puntando il backstage, ma dopo pochi passi torna indietro e chiude l’esibizione con l’unico bis proposto. Tutta la messinscena dei saluti e il ritorno per i bis tra gli applausi del pubblico non fanno per lui. Evan Dando è tutto ciò. Lo era a vent’anni, lo è ora sulla soglia dei cinquanta.
Alla prossima Evan, il ricordo di quelle torride estati passate assieme non svanirà.