Che musica fanno i vostri sogni, quando vi rendete conto di sognare? E perchè proprio synth-pop?
Se vi siete posti questa domanda ieri sera all’uscita dal concerto dei Future Islands al Fabrique, organizzato da Radar Concerti, forse siete sulla mia stessa lunghezza d’onda. Da una dreamy Baltimora a una dreamy Milano, che sempre nella stessa serata, su un altro palco, ospitava i maestri delle atmosfere sognanti del rock (n.b. i The Cure). Ieri notte, nella condensa stagnante su vetri sporchi al sapore di polvere e gasolio del Nord Italia, si sognava da una parte all’altra della città.
In questo venerdì sera sospeso nell’onirico i Future Islands portano alla prova del live il loro ultimo lavoro, As Long As You Are, con cui hanno dato inizio alle danze, dopo l’apertura del gruppo spalla Laundromat, con l’ormai già nota For Sure, seguita da Hit The Coast e Plastic Beach. Come per molte delle band con lavori pronti nel 2020, si è creato quel gap tra ultima uscita e esibizione, per cui nella sfortuna di vedere rimandati di anno in anno i propri tour, i quattro di Baltimora hanno avuto la possibilità di far digerire con largo anticipo il prodotto a fan che rispondono senza esitazione alla performance dei nuovi pezzi. Il nuovo lavoro del cantante Samuel T. Herring e soci non tradisce l’aura elettronica e, appunto, sempre sognante che caratterizza tutta la produzione del gruppo, pur attuando uno shift più deciso sull’elettronico, lo stesso del singolo stand alone del 2021 Peach (anche questo in scaletta). Impossibile qui non percepire l’accostamento con i Phoenix infatuati delle sonorità asiatiche nel riff iniziale, reso pedissequamente dal vivo.
C’è da dire che la performance è perfetta, non si percepisce la minima differenza tra streaming e live, e questo è un bene se si apprezza la particolarità band per la sua particolarità, ovvero la tonalità vocale di Herring accostata a un universo sintetico. La voce di Herring è la vera protagonista dello show: un baritonale scavato, intenso, sofferto come la seduta dall’analista in cui sei finalmente onesto sull’epicentro dei traumi della tua esistenza, è semplicemente qualcosa di straordinario. Sposa in un accordo interiore le tasterie di Gerrit Welmers e il basso di William Cashion sulla batteria di Michael Lowry e guida sapientemente l’ascoltatore attraverso un’epopea di onde sintetiche, drum base che accelerano e irradiano dal cervelletto nelle sinapsi delle cortecce cerebrali, non interrompe ma accompagna l’ondeggiare dei nostri corpi.
Non pensate però ad una performance statica: il frontman non ha deluso chi nel 2014 era rimasto affascinato dalla sua performance al David Letterman Show. Herring non è il professore che ci arringa frontalmente dall’alto della cattedra, è più un esaltato Robin Williams che balla su versi di Whitman. Un frontman che mentre si batte sul petto liberando una pioggia di sudore sotto il pit segna un confine netto tra lui e i canoni estetici del nostro secolo tutto coolness e perfect places – ma che tiene il pubblico incollato a sè decisamente meglio di altri. Herring si muove come un derviscio e disegna labirintiche costellazioni da un lato all’altro del palco, le stesse che noi al riparo delle nostre camerette, senza imbarazzo, tracciamo su parquet di pochi costosissimi metri quadri quando siamo presi a bene o male.
La performance, tutta d’un fiato, con il frontman che introduce le canzoni (ripeto, interprete), ha virato quindi immediatamente sui pezzi storici, da Ran, Walking Through That Door, Balance, Seasons, soffermandosi molto su quel piccolo capolavoro con cui io pensavo di accompagnare il mio viaggio sempre programmato, quasi effettuato, poi perennemente rimandato, in Giappone, in The Evening Air, con cui conclude la sessione centrale con Tin Man e Long Flight e poi in encore con l’incalzante Vireo’s Eye. Se il synth lascia dietro sempre quel metallico sempre dolceamaro, i testi dei Future Islands sublimano un’evanescente malinconia nella tangibile speranza che il tempo e l’amore salveranno il mondo. Un po’ come guardare Lost In Translation in una versione animata dello Studio Ghibli.
Del resto, dal vivo, i Future Islands confermano quello che pensavo: certe cose devono essere esattamente come le si immagina debbano essere. A volte i sogni non si superano. Forse perchè non siamo più abituati a sognare spontaneamente, entriamo in questa condizione di para-realtà in cui programmiamo ogni ninnolo e spazio delle dimensioni spirituali delle nostre vite, viaggi, carriere, relazioni, maledetti Nakamoto delle blockchain dei nostri desiderata che non siamo altro. Herring, nella foga con cui baritona su di noi i suoi mistici incontri con il Re di Svezia (King of Sweden dolce dedica d’amore rilasciata a inizio anno), non è troppo distante dalla me che immagino contemplare il caos pulito e affollato di un’immaginaria Tokyo in piena hanami. Non c’è cosa più agognata a volte che vedere che tutto procede come dovrebbe, quando non succede, rimaniamo delusi e chiamiamo l’analista. Potrei rimanere delusissima dalla realtà, meglio sognare. Ma lo sanno i Future Islands, sulle aspettative si consolidano i peggiori traumi: poi, it just takes time, hard work and your time. Spero non troppo per un altro live, però.
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FUTURE ISLANDS – La scaletta del concerto di Milano
For Sure
Hit The Coast
Ran
Plastic
Peach
Walking Through That Door
Balance
Before yje Bridge
Light House
Corner of My Eye
A Dream of you and me
Painter
Ancient Water
King of Sweden
Seasons
Long Flight
Tin Man
ENCORE
Inch of Dust
Vireo’s Eye
Little Dream