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GIANLUCA GRIGNANI: residui di realtà nel live dell’unico vero Joker italiano

Foto di Ste Bovetto

Si intitola “residui di Rock’n’Roll”, il nuovo tour di Gianluca Grignani. Le macerie di quello che fu il genere mainstream per eccellenza, la rivoluzione musicale e culturale durata decenni, effettivamente ci sono. Eppure i residui più rari e preziosi di questo tour e di questo concerto al Milk di Torino sono forse altri. Il titolo lo svela già, ma andiamo con ordine e ripercorriamo la serata, a partire dal boato che accoglie Grignani e la sua sgangherata ma superlativa band.

Questo è uno spettacolo che uno script ce l’ha, certo, ma solo per il brivido di poterlo accartocciare, di farlo vibrare a ogni gesto. Qualcuno gliel’avrà pure detto: «Gianluca, devi fare questo e quello, non puoi fare invece questo e quest’altro». Di fare il bravo, insomma. Di stare attento, non fare casino. «Ma allora io cosa esisto a fare?» è la risposta perentoria che arriva da Ribellione, brano di ormai sedici anni fa che esemplifica ancora perfettamente l’eterna lotta del rocker meneghino, perennemente avulso dal suo contesto.

La serata è disseminata di mezzi disguidi, battibecchi che ardono sotto la cenere che è stata probabilmente sparsa dopo la data zero al Phenomenon di Fontaneto D’Agogna, in provincia di Novara. Avrete visto i video circolati su social, testate e webzine varie: Grignani che non ci sta, interrompe il concerto perché non funziona nulla, non come vorrebbe. Ma in fondo perché lo fa? Perché ci tiene, perché ciò che fa ha un valore, perché vuole che ogni cosa sia al suo meglio e per questo lotta con il primo ostacolo nel percorso verso questa agognata qualità, ovvero sé stesso. Lo fa anche a Torino, dove ogni occasione è buona per far credere – o per ricordare – alla platea che si è tutti sul filo di un rasoio.

Foto di Ste Bovetto

Eppure ogni brano appare in scaletta come se venisse evocato, da Rok Star a Falco a metà, con le braccia larghe a mimare il volo di un rapace libero dalle catene. «Dedicata a chiunque sia mai stato per strada. C’è chi ci nasce, chi ci cresce e chi non ha mai imparato», con queste a altre accorate parole Grignani ci accoglie nel suo mondo decadente, affascinante e pieno di meraviglia.

L’entusiasmo e la passione furibonda con cui canta i suoi migliori pezzi non sempre vengono compresi, neanche dalla band, con i musicisti che talvolta sono costretti a guardarsi reciprocamente negli occhi per capire come proseguire, assecondando pause ed esplosioni improvvise come se più che un concerto rock fosse un jam session, di quelle matte. Ma quando tutto funziona, funziona maledettamente bene. Come con L’allucinazione, brano imprescindibile tratto da La fabbrica di plastica – senza dubbio il miglior disco di Grignani e tra i migliori di tutto il rock italiano – durante la quale finalmente si vede una formazione compatta ed energica, guidata dal tarantolato Valerio Bruno, in arte Combass.

Gianluca Grignani è sempre in bilico tra l’essere l’antieroe romantico fedele solo a sé stesso – e in questo ricorda clamorosamente Randy “The Ram” Robinson, l’atleta immaginario interpretato da Mickey Rourke nel film “The Wrestler”, di Darren Aronofsky – e il villain al quale non possiamo resistere, come il suo caro Joker. Animato dal desiderio di esistere e farlo a modo suo, consapevole dei suoi limiti, che danno il giro e diventano le sue risorse.

Oggi ci provano ancora in tanti a essere quell’archetipo là, quello del Joker, ammaliante e folle come nessun altro. Ma quanti ci riescono davvero? Forse nessuno. Gianluca è rimasto probabilmente l’ultimo esemplare di “poeta maledetto” a non rivelarsi un semplice poser, almeno nella decadente scena del Rock’n’Roll e di chi ancora lo invoca per darsi un tono.

Lo si capisce dal modo in cui ride mentre canta l’iconico verso “non sono una persona equilibrata”, dal suo desiderio di presentare la band, pur non ricordandone i nomi. Poi chiude con una versione emozionante di La mia storia tra le dita e un mezzo disastro con L’aiuola, lasciando il palco senza neanche salutare. La platea è un po’ spiazzata, non è sicura che sia finito davvero così e attende per un paio di minuti che tornino tutti sul palco, per un encore che invece non arriverà mai.

Poco male, perché si lascia il locale con una sensazione che va tenuta stretta: quella di aver assistito ai residui di qualcosa di assolutamente reale.

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