Foto Credits: Mad Cool 2024
Dice Galimberti che alla situazione di crisi, al lutto, bisognerebbe evitare di fare seguire eccessivi, ruminanti riflessivi, ma prediligere l’azione. Ecco perché al momento di ricevere la green light che ci avrebbe aperto i cancelli del MAD Cool 2024, l’evento internazionale di musica di punta della capitale spagnola, non ho avuto troppi dubbi e volendo seguire l’indicazione delle stelle (o del mio istinto alla disperata ricerca di stimoli) mi sono detta: ma certo, dopo una batosta che chissà se sarà in grado di attenuare il mio straordinario senso di provarci sempre, a vivere una vita senza risparmiarmi, lanciamoci in quattro giorni di musica, feste, ipnotizzanti luci colorate e l’impressione di essere nel Paese del Bianconiglio se non fosse per i prezzi milanesi delle empanadas e gli stramaledetti token.
Non una cattiva idea, in teoria, nella pratica non so come andrà. Lungi dal tirare una morale su cosa sia giusto o non giusto fare, il MAD Cool, tra tutti i festival possibili, si propone come un’ottima soluzione, avendolo la sottoscritta già sperimentato nel 2018 (e la sensazione di entrare in una bolla in cui tutto è permesso, soprattutto di essere te stessa, è la stessa, come il tappezzamento in finta erba).
Primo, ha una line-up che riesce a mischiare, a percezione senza una grande soluzione di continuità, puro divertimento (il sentire quasi fine a se stesso) e quella che la nostra moderna Vate del pop ospite della prima giornata della quattro giorni più pazza di luglio, mrs Dua Lipa, avrebbe definito future nostalgia. Due, è in Spagna. Persino Julia Roberts avrebbe spostato una delle sue destinazioni per recarsi in qualsiasi punto della penisola iberica per un mangia prega e “balla”. E neanche lei partiva a cuor leggero.
Gli spiriti guida hanno sentenziato: sii la Roberts dal cuore danzerino acquisito madrileno, ucciditi di Mahou (o patatas brava) mentre piangi il tuo dolore e racconta al pubblico di RockOn quanto fa bene andare a un festival quando si vuole voltare pagina. Si parte dal Capitolo Uno di tutte le “fini”: ovvero, quella incredibile voglia di staccare.
L’euforia delle pazze decisioni. Il tempo di scappare da Milano e raggiungere Madrid e arrivare giusta per i saluti a Tom Odell che comincia a iniettare una dolce indolenza sotto 40 gradi al sole (se volete la versione sfranta all’Alcatraz di questo inverno basta leggere qui, piantino libero) e mentre sentiamo alle nostre spalle Another Love accennata all’instancabile pianoforte dell’artista (e noi per ora siamo nella classica fase boomer: good vibes only), andiamo dritti a goderci al Mad Cool main stage la prima Queen della giornata, Janelle Monae. Eh sì, perché questa prima giornata oppone eroine di un certo tenore (la Monae e Dua Lipa, insomma, potenzialmente le principali esponenti del femminismo pop internazionale) a un vago sentore di amarcord 90s fatto di stratificazioni rock alternativo ed elettronico degli Smashig Pumpkins, con varie spruzzate malinconiche e metalliche come i Nothing But Thieves, ma andiamo con ordine.
La Monae sembra uscita direttamente da un film di Spike Lee. Come descriveresti questa semidea bruna vestita ora di fiori come una primavera botticelliana, ora in body con spallone anni 90 e basco rosso, ora da vagina (si esatto) con tanto di balletto per la hit Pink (indovinate cos’è?) realizzata con Grimes, ora in body seminude, oddio quante versioni di noi donne vuoi darci Janelle? Ma è questo che cercavo. La nuova vocalissima, perfettissima, artistissima profeta del panafricanismo entra sul palco con Float da The Age Of Pleasure e tu pensi che dietro una tenda ci siano Malcolm X e Obama a ballare. Ma il groove di una band quasi totalmente al femminile incluse trombettista e ballerine che ondeggia a tempo su Electric Lady ti fa venire voglia di andare subito sul tuo Champagne Shit e mandare un gran bel saluto a chi ti tira giù solo per essere splendidamente donna. Anche perché “All the Girls Showing Love/while the Boys be catching feelings” e ci siamo capiti. It takes a fool, eh? Comunque, come un gattino che affronta l’imprinting della madre gatta, Janelle rimane tra le best performance di oggi.
Voliamo (con una breve pausa all’Iberdrola Loop a farci di house allegra e spensierata di Claudia León) allo stage dove ci attendono i Nothing But Thieves per una pausa al sapore di poesia da chitarra distorta, ed il pensiero della realtà si affaccia dietro i falsetti di Conor Mason. Già visti dalla nostra Serena Lotti in apertura ai Green Day agli iDays per me sono alla prima visione. Riempiono bene quel vuoto lasciato dai Muse e i White Lies quando hanno deciso che l’elettro-pop doveva essere la necessaria soluzione all’eterna nostalgia scaturita dalla fine dell era della Battle for Britpop. Tra Impossibile e Welcome To DCC c’e’ quella rivalsa brutal-romantica che oggi in UK solo gli Idles mi stanno portando. Bravi, anche sulla cover di Where Is My Mind. Bravi, perché mi riportano l’amaro scaricandolo in qualcosa di bello. Un po’ come quando sei addolorato e affranchi il tuo dispiacere in versi di poesia. Ne prendi distanza, e contempli come Platone con le idee.
In una velocissima pausa che mi ha visto scattare dai Garbage, arrivata giusto in tempo per rivedere Shirley Manson interpretare una versione di pura nostalgia da basso sugli accordi di When I Grow Up (del resto ora siamo grandi) e il quasi acustico intro di Only Happy When It Rains, sentirla dolersi per il caldo (sempre trasparente come l’aria ce lo dice: siamo anche bellissimi ma io vengo da posti più freddi) anche perché porta esattamente lo stesso abito da scena del Magnolia (c’ero anche io, vedi qui), a uno sprazzo di neon e bassi da Carlita, la mia scala delle emozioni è altalenante come l’inizio di ogni grande cambiamento. Sono nella Temptation Island dei concerti, solo che qui ho artisti tentatori su ben sei palchi e ognuno mi dà una versione di me che mi spaventa, e delizia.
Insomma arriviamo alla prima headliner. Lei. Figa come poche, al setting perfetto (Golden hour). Da Barbie in poi, con il blessing di Greta Gerwig e del miglior Ken mai visto dai tempi della casa valigetta Bed&Bath (sapete di cosa parlo, cari over 30), ufficialmente la madrina del nuovo femminismo irrisolto ma comunque (pioggia di stelline) fantastico, la paladina delle nostre reazioni brillanti a grandissime prese a male, la filosofa del moderno approccio a una vita di grandi aspettative perennemente deluse in cui dobbiamo farci perennemente più grandi di tutti.
Dua Lipa è al terzo concerto in cui la vedo e mentre spennello brillantini verdi su due ragazzi muniti di alette piumate mi chiedo quando inizi la sua curva dei rendimenti marginali decrescenti, perché la torsione sembra infinita. La folla si accalca senza pietà, inizia con il suo nuovissimo Radical Optimism (Gym Tonic e Training season) e rubando un già rubatissimo intro discorso del Grande Dittatore di Chaplin e sul palco si concretizza una folla di ballerini brillanti, ma lei lo è di più, totalmente blinging, nel suo outfit diamante e nelle hit che ci propone (ma tutte tutte lo sono!).
Del resto cosa ci insegna Dua Lipa? Che nel bene o nel male a te conviene brillare. Banalità: quanto tempo perdiamo a non essere fantastiche? Chi ce lo dà indietro? Baby, I dont need to learn my lesson twice. Lo pensa anche Sexxy Red che rappa senza pieta’ nel palco affianco? Un’artista di grande capacità ma con l’incredibile sfiga di essere stata posizionata durante un concerto di Nostra Signora dell’indipendenza sentimentale: non c’è dissing che tenga. Punto di picco: non quando si lancia in un’accoratissima ode al popolo spagnolo, ma quando con la sola imposizione delle mani gioca con le ole del pubblico, da destra a sinistra. Mannaggia a te Dua Lipa. C’avevo quasi creduto che potevamo essere tutte uguali.
E invece. Andando a sfrondare le nostre disillusioni nella batteria e nei bassi onirici di Parra For Cuvas ci dirigiamo già con un accenno di magone verso i The Smashing Pumpkins. Per me la prima volta dal vivo. Per questo sorvoleremo sulle impressioni della sottoscritta (Billy Corgan si è reincarnato in un Morfeo con sentori di Voldemort mentre si aggira con questa tunica sul palco?) per focalizzarci sulla performance. Ma cosa mi ero persa sinora? Corgan sarà anche Zio Fester (cit. Serena Lotti) ma lo standing e la voce sono sempre quella del giovane di 36 anni fa (hanno contato gli anni con James Iha in modalità Elvis).
Al massimo la quota nuova la fa Kiki Wong che saltando animosamente sembra un po’ disallineata rispetto alla staticità del grunge della band, ma chi siamo noi per dire qualcosa? Si inizia dopo un intro Atum registrata con la distruttoria The Everlasting Gaze e si va avanti spinti dalla batteria di Chamberlin che già a Zoo Station (cover) si lancia in un assolo che lascia presagire tutto il resto della discussione. Sono attorniata da fan totali, ed è fantastico fare parte di una religione quando c’è tanta voglia di pregare no? Ma è su Today Today che il mio cuore si incrina.
L’effetto Dua Lipa mi sta dicendo bellamente adios chica, dalla navicella spaziale della super figa mi ritrovo sulla macchina del tempo del rock americano anni ’90 a mangiare pane e nichilismo, e anche se James e Billy discutono sul fatto che loro sono vecchi ma qui in Spagna si vuole fare festa, qualcosa sta per abbandonare il mio corpo.
Ed è alla fine del tutto che l’odissea sentimentale del primo giorno viene a chiedermi i resti. È il momento della riflessione, a cui sono sicura manco Galimberti scappa.
Ci vediamo al day 2.