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Reportage Live

Guida sentimentale al MAD Cool 2024. L’insostenibile leggerezza del terzo giorno: SUM 41, Måneskin, e le perle di JESSIE WARE

La missione di pace trova una tregua prima del grand finale di venerdi. Nostalgia portami via, ma non prima di avermi gasato a colpi di pop introspettivo con Benjamine Clementine o con quello esuberante di Jessie Ware. Mettiamo il cervello in pausa e limitiamoci a brillare, con il dubbio se essere supernova o nana bianca.

Articolo di Marzia Picciano

Il terzo giorno secondo le scritture dovremmo ascendere al cielo, ma dato che tra noi e Gesù ci sono diversi layer di differenza (a partire da quello della pazienza e comprensione dell’umana limitatezza, che anche a noi femminucce varrebbe comunque almeno un inizio di processo di beatitudine) restiamo umili e questo 12 luglio di MAD Cool 2024 lo passiamo nella terrena e terrestre Iberdrola Arena a fare pace con la nostra psiche, e perché no anche col cuore. La verità è che al terzo giorno di festival cominciamo a sentire l’effetto estraniante intorno a noi e il distacco con la realtà è concreto: la biosfera del MAD Cool è un analgesico perfetto per un reale deludente. Però, visto che abbiamo ancora due serate, decidiamo di abbandonarci alla tentazione purgatoria di star sospesi nel mezzo offrendo il fianco a una programmazione che vuole renderci leggeri prima di schiantare a terra domenica. Ora siamo come Platone a contemplare le idee.

Venerdì è una giornata decisamente rock e punk e, non vorrei essere ripetitiva, ma davvero nostalgica. Da brava piccola aspirante boomer mi viene il dubbio: magari si stava meglio quando si stava peggio, ovvero quando il pop-punk era qualcosa di serio. I dominatori incontrastati del palinsesto sono Sum 41, Måneskin, Tom Morello. Con alcune validissime inserzioni di una meglio gioventú (ovviamente è metaforico) di artisti con qualcosa di serio da dire. In ogni caso, una giornata densa di sensazioni, sentimenti, labbri morsi in un ricordo un po’ angosciato di un paradiso perso (quello di quando l’unico pensiero era fare lo zaino per il giorno dopo di scuola, non pagare l’affitto o dover rispondere a tono a maschi alfa in difficoltà con donne a lavoro). Iniziamo con Benjamin Clementine.

Clementine è probabilmente matto. Dico, per stare fronte sole con il vestito di scena che è il cappotto invernale (però petto nudo e piedi scalzi). Dietro lo sguardo più elegantemente maschera che possa ricordare tra gli artisti visti, la pelle opale e un caldo sorriso beffardo mi sono chiesta: ma starà soffrendo o è lui davvero un Cristo in croce che si offre agli altri masochisti che lo ascoltano in cambio dei nostri peccati? Anche perché in un momento di assoluto free style al piano ironizza ampiamente sul calore, e sulla speranza di incontrare spagnoli e non connazionali britannici (è pieno Benjamin, facciamo pace). Però questo elegantissimo Gesù di ossidiana è capace di sprigionare una voce spettacolare che unita alla presenza scenica grave e un set decisamente minimalista ma di effetto (una tastiera, una super grancassa e una chitarra, tutte in completo senza camicia grigio) mi ruba il cuore più di quanto fatto a Milano l’anno scorso. Il peso dell’impronta elettronica è dieci volte più imponente, lo si sente subito. Ma non mancano le versioni pure di Delighted, Condoleances, London, Residue, insomma tutti quei pezzi tormentati come solo chi usa incrociare pianoforte e pop sa che tipo di magone lasciano in cuore. E sono solo le sei e questo sole, no, non accenna a darti pace e ti fa sentire più solo. Com’era? Little loneliness is due/Madness is the residue for me and you.

Passiamo agli ALVVAYS. La band capitanata dalla biondissima Molly Rankin con la tastierista Kerry McLellan è la quintessenza della malinconia che solo certi canadesi sanno catturare, qui in una versione chitarrosa ’80s da Breakfast Club. Molly e team tengono il pubblico caldo da Pharmacist fino alla fine più del sole ricordandomi come il Canada rappresenti un momento particolarmente felice della mia vita nonostante le piaghe della maturità millennial tipo, pregare qualcuno perché ti sposi e faccia spese pazze alla Regione Lazio con te (scherzo ragazzi, quello è danno erariale e non fatelo se siete nel pubblico). Anche perché Marry Me Archieeee è davvero quello che volevo urlare oggi con loro. Non davvero però ecco, il dream rock con le sue chitarre distorte è sempre un gran modo di sfogare, con leggerezza. Provatelo, davvero.

Andale, andiamo verso gli Unknown Mortal Orchestra che tanti anni fa vidi in una affollatissima serata al Largo Venue (Roma). Invece loro sono estremamente fini ed eleganti sotto questo sole che farebbe urlare chiunque come veneti, nel loro rock psichedelico con un groove che convincerebbe alla pace e all’amore (anzi al Multi-Love) qualsiasi litigiosissimo, ma siccome non c’è guerra nel cuore di un festivalaro, siamo al sagra della presa a bene e anche la sottoscritta si fa contagiare. Anche perché ora skippando (chiedo venia) chi manda il terapista dal terapista (Alec Benjamin, e qui posso solo dire che dato che la mia mi dà la caccia da settimane, ecco, non posso avere altri cattivi maestri) vado ad arrabbiarmi male da Jason Williamson e Andrew Fern, in arte Sleaford Mods.

Stiamo parlando di un duo attivo sulla scena decisamente da parecchio, presenza costante al Primavera Sound come un’altra band oggi alla super ribalta (si, gli IDLES), dato che la Britannia (usiamo questo termine si) ha capito che il suo posto nel mondo è raggiungibile tramite una strada a scorrimento veloce chiamata satira post-punk, o invettive su base musicale. Perché alla fine che fanno gli Sleaford? Questo! Williamson è uno stand up comedian nero e incazzato come solo certe sciure abituate a the, sigarette e fritto di pesce del nord (mica a’ paranza, eh) possono essere. Speriamo che la vittoria dei laburisti non inietti alcuna forma di amore nei loro cuori perché noi abbiamo bisogno ancora di sarcasmo e di vedere testi alla Stick In A Five And Go. Lo facciamo fare agli altri perché a noi costa emotivamente troppo. Williamson suda da matti, soprattutto dalla faccia, ma la sua posa e la sua voce sono magnetiche, tanto quanto Fearn che balla con la sua maglietta Sugar Daddy e così occupa lo scenario di un palco decisamente enorme per una performance assolutamente votata al minimalismo. Per citare un motto degli ultimi giorni, in un mondo di Morgan, sii Andrew Fern.

Dalle invettive spiritate passiamo al giallissimo (di Eric Burton) dei Black Pumas che ci propongono la loro ricetta un po’ blues un po’ funky un po’ presa a benissimo (è una costante della giornata del palco MAD Cool). Sembra che la line up della giornata sia votata interamente a farti pensare che in un epoca non troppo passata si stesse davvero meglio o comunque la musica fosse migliore. Sicuramente per l’umore, lo sono Fire e Ice Cream i pezzi con cui i Black Pumas aprono la sessione serale. Che tu sia in piedi o buttato a terra a riposare lo senti: è iniziato un bel casino. Tutti i palchi sono scossi di vibes rock contestualmente: da un lato Tom Morello che scuote il Palco Orange dall’altro quello della Comunidad di Madrid si prepara ad accogliere i Sum 41. E la sottoscritta rimette l’elemetto di Jane Parker per avventurarsi nel sottobosco locale e andare ad esplorare Depresión Sonora.

Marcos Crespo è un chico del ’97 di Vallecas e ha come punto di riferimento tutto quello che lega i Joy Division con i Cure condito dei riff metallici dei sintetizzatori e di tutto l’effetto blurred degli ’80. Però porta i temi del consumismo (da capitalismo) triste del 2000. Chi ha detto che la new wave è morta? Non Depresión Sonora, che l’ha portata persino al Coachella. C’è la fila per entrare nella tenda della Mahou e stare quaranta minuti a sentire questo ragazzo con tanto di cappello da cacciatore, un’ombra persa tra i fumogeni. Se avete simpatie per come l’industria spagnola stia interpretando e innovando nell’indie, lui è per voi. Del resto, disperatelli come siamo, non ascoltaremmo uno che intitola un album El Arte de Morir Muy Despacio

Andiamo verso gli headliner. Ancora canadesi, evviva! I Sum 41 vengono freschi freschi per noi italiani dagli i-Days. Per che non li ha visti li come la sottoscritta è tornare ai tredici anni. Evviva evviva. Deryck Whibley è stratosfericamente gasato per questo gran tour finale, come il gonfiabile che appare più o meno a metà concerto e grazie a Dio non prende fuoco sotto i vari artifici scoppiettanti mossi dal vento della sera. Da Motivation al national anthem delle nostre fasi ribelline Still Waiting viene da chiederci: ma perché non c’è più il pop punk? Perché siamo finiti nell’emo per portare una cresta o semplicemente urlare come il Signore comanda?

Ce lo possono dire i Måneskin. Non sto scherzando. Lo stage principale è il loro. E non per caso: perché pur essendo così giovani e fenomeno meteora (chissà) o semplicemente la band rock più controversa per i critici degli ultimi anni e no, non perché sia davvero controversa, sospesi eternamente tra detrattori e fan straniere scatenate (si, le ho viste, urlare Zitti e Buoni davvero, cavolo), insomma hanno in comune con tutti gli altri headliner qualcosa. La percezione che quello che hanno creato, nel bene o nel male, rimarrà nella mente di qualcuno. Momento patriottico, lo ammetto: fa piacere, ma tanto, vederli dal vivo sul main stage di un festival internazionale. Peccato per nessuna incursione del loro promoter internazionale Morello. Meglio vedere Ethan e Victoria contorcersi tra chitarre e fan sul palco. Unica nota: sempre perfetti ma forse li ho sentiti un po’ più lontani. Ma io non sono la terapista di coppia della band quindi scopriremo se il sentiment è vero o no, nel caso, poi. 

Gioventù vitale contro giovani vivi del passato (anche se la Dopamine dei Sum 41 mi sembra un po’ troppo volutamente radiofonica) ci meritiamo una pausa pop. Ammetto: sono andata da Jessie Ware solo per sperare che Romy salisse sul pubblico con lei. E invece no, The Pearl, “A’ Perla”, perché musa in tuta metallizzata è, con un – per me – assolutamente spettacolare accento British ci dice “gorgeous“, a’ belli, l’amica mia non c’è, cantiamo insieme: I’ve been livin’ in the past/Always thinkin’ this won’t last/No one else can hold us back. Jessie Ware e’ la rappresentante del filone femminista che ormai non manca in nessun festival che si rispetti, ma qui non c’è polemica, no, ne ho abbastanza delle polemiche woke or not. Vado dalla Ware per la mia incontrollabile voglia di un pop fatto bene e che scateni in me la voglia di essere leggerissimamente e sentitamente diva. Di che, non lo sappiamo, ma come dice la comunicazione corporate di tutte le aziende oggi giorno, mi raccomando pensa a splendere e a essere te stessa (almeno finché non ti licenziano). E si conclude ottimamente con una Believe di Cher

È la fine del giorno tre. Sentiamo questa leggerezza pervaderci. Quella appunto di lasciarci andare finalmente allo spazio temporale aperto dallo Stargate di un festival come il MAD Cool. E lo facciamo godendoci quella chiusura con gli Acid Arab (ma qui andrebbe menzionata anche l’eccelsa giornata dell’Iberdrola Loop che vedeva niente popo di meno che il padre spirituale della dance, DJ Koze e anche Mochakk in chiusura) che per me sono quanto di meglio puoi volere da una serata a ballare, a suon di oud e banjo, però mixati a un bass moderno.

Si torna a casa con la dolce voce di Kim Deal delle The Breeders che suggerisce un finale più amaro. Quello dell’ultimo giorno che ci attende oggi. Per dirci se alla fine è stata o meno una buona idea, lanciarci dalla disperazione al MAD Cool 2024.

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Dall’Adriatico centrale (quello forte e gentile), trapiantata a Milano passando per anni di casa spirituale, a Roma. Di giorno mi occupo di relazioni e istituzioni, la sera dormo poco, nel frattempo ascolto un sacco di musica. Da fan scatenata della trasparenza a tutti i costi, ho accettato da tempo il fatto di essere prolissa, chiacchierona e soprattutto una pessima interprete della sintassi italiana. Se potessi sposerei Bill Murray.

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