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Reportage Live

I HATE MY VILLAGE o della bellezza del suonare insieme per il puro piacere di farlo

Al Castello Sforzesco la tappa milanese del tour estivo della superband formata da illustri rappresentanti della scena alternativa italiana. Che insieme sul palco, in versione live, giganteggiano.

I Hate My Village in concerto Castello Sforzesco Milano foto di Giorgia De Dato per www.rockon.it

Articolo di Silvia Cravotta | Foto di Giorgia De Dato

Metti insieme sul palco in una calda estate milanese quattro musicisti di comprovata esperienza alla sempiterna ricerca del sound desiderato e vedi l’effetto che fa. Il risultato è un live difficile da dimenticare, quello degli I Hate My Village, che si sono esibiti al Castello Sforzesco per la tappa milanese del loro tour estivo, nell’ambito della rassegna Milano è Viva – Estate al Castello.

Di questa band si possono dire tante cose ma di certo non si può etichettarla. Così anche se è composta da pezzi grossi della musica indipendente nostrana – Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) – non parleremo qui di superband, perché questo termine un po’ ritrito non ci interessa in relazione alla notorietà dei componenti, al massimo possiamo usarlo per riferirci ai risultati da loro ottenuti: in appena sei anni di attività, ritagliati tra un impegno e l’altro in giro per l’Italia, due album (I Hate My Village 2019, Nevermind the Tempo 2024) insieme a un EP (Gibbone, 2021) e un bonus tracks. Evitiamo le etichette ancor più quando parliamo di genere musicale, sarebbe altamente riduttivo viste le esperienze e le influenze che i quattro si portano dietro, e non possiamo certo restringere il campo all’afrobeat, alla world music, al rock psichedelico o a una strasentita scena italiana con matrici blues e prog. Perché c’è tutto questo e molto altro.

I Hate My Village in concerto Castello Sforzesco Milano foto di Giorgia De Dato per www.rockon.it

Perché I Hate My Village (nome ispirato al titolo di un cannibal movie, giocato sull’assonanza di Hate e Ate) è un esperimento di contaminazione, una fusione ben riuscita di quattro teste al servizio di un progetto che la musica scompone e destruttura, mostrandocela in tutta la sua nudità. Ci indica le sue imperfezioni portando al contempo un risultato paradossalmente perfetto. A Milano hanno portato un groove lungo un’ora e mezza che ha abbracciato e trascinato tutti i presenti al Castello. Dove l’attesa era forte, l’età media era appunto media e dove non c’era neanche un posto a sedere libero. Con un salvifico venticello che ha mitigato l’afa dei giorni passati, rendendo il tutto ancora più piacevole.  

Quando la luce è ancora alta, alle 20.30 in punto come da programma, sale sul palco Marco Fracasia. Giovane talento torinese che ha pubblicato due EP con 42 Records, un look tra indie e pop che rispecchia perfettamente quello delle sue canzoni, che raccontano un immaginario intimo: a volte da solo, a volte dialogando intensamente con i musicisti che lo accompagnano. Una mezz’ora interessante, accompagnata da parecchi applausi di incoraggiamento.

Un’ora dopo cala il buio, un Castello Sforzesco splendidamente illuminato fa da cornice alla platea affollata, i tecnici si aggirano sul palco. L’atmosfera è decisamente rilassata e sembra che ancora debba passare tempo per vedere iniziare il concerto quando, con un effetto decisamente straniante, parte Vattene amore, proprio quella di Minghi e Mietta di Sanremo ’90. Ed è sulla scia di “e allora ti chiamerò trottolino amoroso, du du da da da” che i quattro entrano in scena per armarsi dei loro preziosi strumenti.

Parte una cavalcata che alterna, quasi con precisione, canzoni del primo e del secondo album. Una infinita, ma che non vorresti finisse, jam session in cui i quattro, con la sicurezza di artisti che vantano diverse fanbase e con la serenità di chi i palchi li calca da una vita, lasciano alle spalle il loro passato e danno vita a qualcosa di completamente nuovo, fanno quella musica – per loro stessa ammissione – che vorrebbero sentire. Mentre suonano sembrano legati da un filo che li unisce, si godono appieno il momento: lo testimoniano l’ondeggiare ipnotico della testa di Viterbini con la sua chitarra, la faccia soddisfatta di Rondanini mentre pesta sulla batteria, il sorriso divertito di Ferrari, la concentrazione di Fasolo al basso. Le canzoni arrangiate per il live sono veramente tutta un’altra storia e chissà quante altre versioni da  suonare hanno in testa questi uomini. Feeling, contaminazione e libertà di stravolgere e sperimentare, non sembra mancare proprio niente per essere felici.

I Hate My Village in concerto Castello Sforzesco Milano foto di Giorgia De Dato per www.rockon.it

L’attacco è potente con Tramp (nome tra l’altro evocativo, in questi giorni di attentati ed elezioni a stelle e strisce) con quel riff ossessivo di chitarra che cattura immediatamente l’attenzione del pubblico con le sue distorsioni e non la molla nelle successive canzoni che si susseguono incollate una dietro l’altra, tra il frenetico e alienante soul di Italiapaura e Acquaragia che, insieme a Water Tanks, ci riportano alle coralità e ai ritmi di un villaggio africano. Quel sound che caratterizza così fortemente il loro album d’esordio, così lontano da qualsiasi schema, e le cui influenze si fanno sentire anche nel secondo lavoro, che prende un’altra direzione, non per questo meno interessante.

Da subito la chitarra di Viterbini si rivela preziosa, così come la batteria di Rondanini è protagonista in prima fila nonostante l’inevitabile posizione nelle retrovie ma in certi momenti è come se avanzasse sul palco e la sua personalità spicca con forza tra i compagni. Il cantato di Ferrari è, come negli album, un accompagnamento, la voce resta sotto gli strumenti, le parole sono poco comprensibili ma tutto questo non fa altro che esaltare ancora di più il progetto musicale in sé. C’è ma non si impone.

Il ritmo incantatore di Presentiment e le sonorità altalenanti di Fame si mangiano tutto il cortile del Castello, come se attirassero a sé tutto il pubblico presente, con le chitarre che rimbombano per poi spegnersi pian piano. Jim ci riporta a un equilibrio pop, la voce di Ferrari si fa sentire, i fari illuminano alternativamente i componenti della band immersi nel buio. È un momento che potrebbe durare per sempre e non ci dispiacerebbe. Un breve assolo tribale di batteria introduce Come una poliziotta, che lascia il posto alle riverberanti botte di chitarra di Eno degrado. Ogni tanto le luci si spengono e i musicisti suonano quasi al buio, rendendo il tutto ancora più mistico. Ferrari ogni tanto armeggia e sistema le sue chitarre, un tecnico interviene più volte sulla batteria di Rondanini. Tutto in modo molto rilassato, la sensazione è quella di essere tra amici.

I Hate My Village in concerto Castello Sforzesco Milano foto di Giorgia De Dato per www.rockon.it

La scomposta Erbaccia con le sue delicate distorsioni lancia la volata all’esplosione di energia di I Ate My Village e alle sonorità tuareg di Mauritania Twist fino al ritmo sincopato accompagnato da coretti di Fare un fuoco. A questo punto la voce dei Verdena, che per tutto il concerto si è limitato giusto a qualche “grazie”, fa quello che tutti avrebbero voluto fare dall’inizio del concerto: grida un “tutti in piedi” e il pubblico non se lo fa ripetere trovandosi, letteralmente in pochi secondi, ammassato sotto il palco. “A tu per tu con la band”, canticchia Ferrari, che lancia occhiate esplicite alle prime file, tanto che a un certo punto sul palco compaiono alcune fan che li accompagnano ballando.

La ballad psichedelica Broken Mic e il ritmo forte e sincopato di Tony Hawk of Ghana, open track dell’album d’esordio, chiudono il concerto e fanno uscire i musicisti. Non ci vorrà tanto per vederli rientrare, richiamati a colpi di “hey” sempre più veloci dal pubblico. La chiusura è lasciata a Kennedy e al vortice di Artiminime, canzone d’apertura di Nevermind The Tempo, che ci risucchia per un’ultima volta in un momento senza tempo dove l’unica cosa che conta è quello che stai ascoltando. Poi, di botto, la magia finisce. I musicisti salutano ed escono, le luci si accendono ed è ora di rientrare a casa. Accompagnati dal pensiero di volersi ritrovare presto in un consesso musicale così prestigioso e coinvolgente.

Clicca qui per vedere le foto del concerto degli I Hate My Village al Castello Sforzesco di Milano (o scorri la gallery qui sotto)

I Hate My Village
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2 Comments

2 Comments

  1. Fiorenza

    26/07/2024 at 13:58

    Oltre ad avere il privilegio e l’ onore di assistere al CONCERTO, scritto volutamente in maiuscolo a sottolineare quanto a volte sia facile confondere uno spettacolo musicale da un CONCERTO vero e proprio, ringrazio Silvia per aver descritto in maniera chirurgica l’atmosfera di quell’ evento svolto in un contesto così particolare. Energia dal palcoscenico che si amplifica con l’energia di quei muri.
    Devastatante il vincolo organizzativo che imponeva una rigidità di corpo.
    Ma tutto sommato, i corpi hanno vibrato da “dentro” in maniera esponenziale…… e poi… finalmente tutti liberi.

    Concerto epico

  2. Silvia Cravotta

    26/07/2024 at 14:09

    Grazie a te, Fiorenza, per le belle parole!

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