Articolo di Umberto Scaramozzino
Sulla nostra esterofilia congenita e sullo stato agonizzante della musica mainstream italiana si potrebbe disquisire per giorni, mesi, anni, senza mai cavarne fuori qualcosa di davvero buono. In alcuni casi è un circolo vizioso per il quale cerchiamo la qualità all’estero, demonizziamo ciò che abbiamo in casa e così facendo alimentiamo la decadenza e la necessità di volgere lo sguardo altrove. Messo da parte l’ovvio, nell’underground si muove di nuovo qualcosa. Quel qualcosa che ci ricorda che in tempi disperati è sempre negli outsider e nella musica indipendente che dobbiamo porre la nostra fiducia.
In questo scenario a emergere dal loro nomen omen troviamo i Post Nebbia, band originaria di Padova che da qualche anno ha attirato su di sé i pochi riflettori del rock alternativo rimasti accesi nel nostro Paese. Con il nuovo “Pista Nera”, quarto album in studio (se si include il primo, autoprodotto, “Prima Stagione”) uscito lo scorso novembre per Dischi Sotterranei, l’etichetta che ha avuto un ruolo fondamentale nella crescita del combo. “Tutto sta cambiando, eppure l’uomo spara la neve, cerca di rimanere attaccato a un’idea di montagna che non esiste più”. Con queste parole Carlo Corbellini, frontman e paroliere dei Post Nebbia, racconta in modo chiaro e lampante cosa racconta – forse più con necessità, che con intenzione – la musica dei Post Nebbia, che con “Pista Nera” vengono giù a tutta velocità.
L’Hiroshima Mon Amour di Torino si illumina con con la proiezione di un hotel montano che esplode e crolla, mentre una voce registrata riempie la sala: “I genitori di Leonardo sono pregati di venire a prendere il figlio presso il rifugio Pista Nera, in cima alla seggiovia. Ripeto: Leonardo si trova al rifugio in cima alla pista”. Così, un accento veneto di montagna, introduce la serata con la title-track del nuovo disco. Una trovata del tastierista Giulio Patarnello, tanto semplice quanto geniale, ma soprattutto molto efficace nel catapultarci immediatamente nel concept del disco senza dover per forza essere didascalici.
Da subito colpisce quello che di solito, purtroppo, manca alle band italiane: i Post Nebbia hanno un sound pazzesco. Psichedelico, evocativo, coraggiosamente sperimentale. L’uso prominente di suoni campionati e synth riesce a svecchiare la proposta iniziale della band e li catapulta verso sonorità moderne e accattivanti, ma lo fa anche grazie anche a un uso molto sapiente della sezione ritmica, soprattutto della batteria, assoluta protagonista. I volumi sono essi stessi una dichiarazione d’intenti: i Post Nebbia sono una rock band, la voce sta al suo posto e contribuisce a creare un suono più grezzo che in passato, atto a veicolare quel fantomatico “qualcosa da dire” dal quale dovrebbe essere difficile prescindere, in un mondo nella quale la qualità conta ancora qualcosa.
Ora che i trend impongono di portare in tour gli album del passato, integralmente, i Nostri invertono il paradigma e suonano per intero l’album nuovo, che fila via veloce, potente, coerente. Passano poi ai pezzi vecchi per aggiungere i tasselli mancanti e far contenti i fan della prima ora che non sembrano essere pochi, nel club di Bossoli assolutamente sold out. Abbiamo detto che hanno un ottimo sound, certo, ma non si fermano a quello. Suonano compatti come solo una band che ha imparato a comporre con uno sforzo collettivo può fare. Che i nuovi brani siano nati dai testi di Corbellini e da ispirate jam session non stupisce: sembra che ognuno sia estremamente consapevole del proprio ruolo nella band, in studio e sul palco. Sono anche belli da vedere, divertenti, anche se fondamentalmente abbastanza composti. Se aggiungessero un po’ di sporcizia alla loro esibizione forse ne uscirebbe un live più incisivo, ma correrebbero il rischio di non farsi prendere sufficientemente sul serio e, visto il momento storico, abbiamo disperatamente bisogno di prendere sul serio una band del genere. Deve avere peso, crescere e influenzare nuovi giovani musicisti, magari spingendoli a sperimentare invece di perseguire facili obiettivi. Per fortuna la compostezza è esattamente ciò che perde il pubblico dell’Hiroshima Mon Amour, che dopo un paio di pezzi entra nel giusto mood grazie a qualche mirata esortazione dal palco e si scatena in un misto tra balli e pogo che prosegue per tutta la durata dello show.
I Post Nebbia sono un caso praticamente unico nell’attuale scena musicale italiana. Non solo perché regalano assoli di chitarra senza il temuto effetto cringe, non solo perché in alcuni frangenti stupiscono andando a scomodare paragoni con grandi artisti internazionali del calibro di Arctic Monkeys (i primi), Tame Impala e Unknown Mortal Orchestra, ma anche perché da quei pericolosi paragoni riescono a trovare riparo osando, sperimentando e andando a raccontare con grande personalità il disincanto e il disorientamento generazionale che li accompagna.