Articolo di Marzia Picciano | Foto di Rossella Mele
Di tutto il pop e dance anni ’90 sono rimasti di per certo i centri di gravità. E la gravità spinge sempre, da qualche parte.
Questo il pensiero che mi porto a casa dal live di ieri sera, 11 maggio, all’Alcatraz degli Eiffel 65, un ritorno (o meglio la volontà di un ritorno) annunciato già dall’ospitata sul palco dell’Ariston di questo Sanremo 2024. Eppure per questa volontà di rientro nelle scene, come dicono Jeffrey Jey e Maury Lobina, rispettivamente voce e dj degli Eiffel, senza Gabry Ponte che ha lasciato il gruppo nel 2005 (ma che ha dato avvio a inizio anno alla stagione del revival serio di quel movimento capace di mietere diverse vittime chiamato eurodance), sentito e urgente dicono “non per soldi”, ma per dire anche loro la loro in questa industria musicale italiana persa in un’espansione dopatissima (perché qualcosa ci sarebbe da dire, ancora), mi sarei aspettata un pó più di rumore. Ma non avrei pensato di essere colpita da considerazioni ben più profonde della semplice valutazione di uno show.
Arriviamo precise alle 9, ma lo show capiamo subito inizierà ben dopo. Mi attende un dj set di riscaldamento dosato con attenzione su quella che è la playlist commerciale per eccellenza, e il dj continua a dirmi che manca poco, pochissimo, invece il tempo si allunga come la fuga di una tartaruga irraggiungibile, lentissimo e inesorabile, e che a breve canteremo. Attenzione, è importante, ci torniamo a breve. Dopo due ore quasi inizia lo show, immagino per permettere alla sala di riempirsi dato che il concerto è legato a una serata anni ’90, e io non ci credevo più. Cala il sipario, o meglio il buio, salgono i nostri due eroi in postazione dopo una intro a video che ricorda i principali milestones della carriera del gruppo e arriva ad oggi (ebbene signori, si, 20 anni).
Inizia il live e capisco che si, ora si canta. Ma tutta questa tiritera iniziale ha appiattito un pó l’effetto che invece Jeffrey e Maury hanno cercato, su cui hanno lavorato, e si vede, a partire dal palco, dalla sequenza dei video e delle grafiche (rigorosamente cyber, in perfetta linea con quanto abbiamo visto con Ponte lo scorso 27 gennaio), dall’emozione di Jeffrey. Il pubblico, un pó sparuto ma anche incerto, cerca di ritrovarsi. Pur riconoscendo il grande sforzo degli Eiffel, bisogna dirlo, perché dopo appunto i 25 anni di Ponte, Sanremo, l’annuncio di voler tornare con un nuovo singolo il 25 maggio, c’è stata la sensazione che si volesse non tanto revitalizzare ma riconiscere nella sua dignità quella che è stata un’epoca importante per i Millennials e non solo, che ha visto un gruppo italiano girarsi mezzo mondo per una hit che piaccia o non piaccia, era proprio ovunque. Alla faccia dell’egemonia culturale.
E che spesso vediamo associata, ora ne sono convinta, troppo ingiustamente, a eventi che celebrano gli anni ’90 e ci chiederanno anche: “ma del resto cosa c’è di più nineties degli Eiffel?” E avranno anche ragione ma non è questo il punto. Gli Eiffel 65 hanno voluto fare un concerto, con Jeffrey Jey che dà piste infinite ai tutti i trapper con la sua voce da vocoder (l’effetto è importante non appena compare sul palco Fred De Palma, già con loro appunto al Festival, qui in versione canto libero e non medley celebrativo). Gli Eiffel volevano farci cantare davvero. E questo era palese.
Perché non c’è solo Blue. Ci sono più hit a forma della band che ci hanno mosso in quei dancefloor un pó incerti, un pó sulle prime note dei nostri ormoni, che ci hanno fatto sentire anche Battiato (Maestro, lei avrebbe capito), mescolando quel sacro e profano alla ricerca di una misura propria. E ieri c’erano. C’era anche la voglia di ridirlo, e dire al mondo, a partire dal pubblico presente, conscio o meno, che gli Eiffel e l’immaginario che si portano dietro per l’attuale future aging-population italiana, non sono solo un fenomeno nazionalpopolare da tirare fuori a fine serata, ma qualcosa di serio, serissimo. Ci hanno provato a dirlo a inizio concerto, con l’intro celebrativa della band. Lo hanno fatto con i feat, con le connessioni a film e scatch di interviste del Maestro, con la ricerca di un coro da stadio. Ma gli altri lo avranno capito?
Badate bene: questa non vuole essere polemica, al massimo un invito a riflettere seriamente su una band che dopo ieri ho cominciato a pensare abbia sofferto dello stesso problema di milioni di persone inclusa la sottoscritta: non darsi il giusto valore, che è una sfida non da poco in un’industria musicale spaccata a metà dalla ricerca spasmodica di streaming su algoritmi e playlist che piallano senza pietà la nostra personalità e la ricerca di un senso artistico superiore e chissà perché alla fine le due cose per pace del mercato devono sempre combaciare per gridare al “genio!”. In breve, a fine serata mi sono sentita più dalla parte degli Eiffel di quanto non lo sia mai stata, arrivando a pensare di suggerire loro di porsi finalmente quali i passati “re” di una stagione musicale e nazionale che ci ha visto, noi italiani, eccellere in qualcosa (per buona pace di chi ha sempre la necessità retorica di identificare un prodotto interno di successo) o anche più semplicemente, come due (tre) ragazzi che hanno fatto ballare veramente un sacco di persone, senza i social, senza internet, ma con i supporti ottici, anche piratati, radio, Festivalbar e MTV.
Uscire dalla dimensione dell’amarcord e rendersi “eterni”, una sfida: nessuno penserà mai che Crazy in Love sarà solo una canzone pazzesca degli anni duemila, ma una super hit di Beyoncé. Per gli Eiffel c’è la sfida di una ricerca dell’eternità con dignità, devono essere seppelliti e ricevere gli onori alle armi direbbero i greci per entrare nel Pantheon delle divinità. Perché quando partono i loro pezzi, c’è qualcosa. È come guardare una relazione passata con la giusta distanza: magari appena conclusa, con ancora le ferite aperte, tutto sembra sanguinare e sporcare l’oggettività di certi istanti. Ci danniamo a cercare di capire se fosse vero o meno, o se è la solita case-libri-auto-viaggi-foglidigiornale buona solo da scaricare nell’indifferenziata con il terrore di separare il marcio, quasi possa contagiarci. Invece dopo un pó torniamo sul luogo del delitto e ci rendiamo conto di come fosse bello quel sentimento che ci ha legato a qualcosa, che ora chiamaremo amore, ma chissà alla fine cos’era, ma se era bello, allora era vero. Più o meno così si accende ogni persona che si trova a sentire “Acquazzurra, o Albachiara“, ovunque sia. Il ricordo di un momento in cui eravamo leggerissimi.
Solo per questo gli Eiffel dovrebbero darsi una gran pacca sulle spalle e anche crederci di più. Io sono con loro.
Clicca qui per vedere le foto di EIFFEL 65 in concerto a Milano (o sfoglia la gallery qui sotto)
Gianluca Brescia
17/05/2024 at 16:16
Ciao, hai scritto una buona analisi sul concerto degli Eiffel 65 all’Alcatraz e di tutto un movimento della Dance ed Eurodance che oggi non esiste più ma in passato era presente ovunque.