Articolo di Marzia Picciano | Foto di Andrea Ripamonti
Immaginati tra trent’anni. Dove saresti, come saresti, e soprattutto: ameresti ancora le stesse cose di oggi, e per cui ti svegli ogni giorno?
Chissa se è questa la domanda che si sono fatti i Counting Crows pensando ai loro trent’anni di attività, dopo due di pandemia e concerti rinviati. Sicuro è la domanda che mi hanno implicitamente posto ieri sera (7 ottobre) al loro concerto al Teatro Dal Verme a Milano.
Aperti dal giovane intenso cantautore irlandese David Keenan, eravamo alla seconda e ultima data italiana dell’ormai storico gruppo di San Francisco con una fissa per i situazionismi della provincia americana, della Middle America. Una data rimandata, spostata, insomma, sofferta per band e fan appassionatissimi e calorosissimi che non vedevano il gruppo da quasi sei anni in Italia. Prima di tutto, i fan: mai visto un pubblico così eterogeneo e unito. Braccio a braccio, stretti nelle poltroncine cercavano il loro spazio identitario i fedelissimi, dai più giovani ai più o meno storici quanto la band (ma più giovani di me dentro, quello sicuro), con famiglie al seguito, o con genitori a seguito, fate voi, fan d’oltreoceano, insomma di tutto. Ieri ero con un pubblico trasparente nelle intenzioni, famigliare, rassicurante come un corriere mattutino in consegna ad una schiera di villette immerse nel verde. E così sono stati anche i Counting Crows.
Sin dall’inizio con la prima Mrs Porter’s Lullaby, fino alla chiusura in encore di Holiday in Spain, ho avuto, come poche volte nella vita, la certezza di trovarmi di fronte una performance semplice, diretta, non pretenziosa, sempre di alto livello, perchè è di questo che stiamo parlando (soprattutto se hai a che fare con musicisti del calibro di David Bryson, Charlie Gillingham e naturalmente David Immergluck). Qui non abbiamo a che fare con formazioni modaiole, facilmente assimilabili a correnti e sottogruppi, tutte perse nel culto di sè. I Counting Crows al contrario sono come sono, ieri e oggi hanno lo stesso sound, forse un po’ meno grunge. The Butter Miracle, loro nuovo album per cui sono in tour europeo, del resto non nasconde una svolta ancora più roots rock, che nella performance da teatro suona spiccatamente blues e country (quello che ne è uscito dal duo chitarra voce di Blues Run the Game, cover di Jackson C. Frank e di Elevator Boots ne è un chiaro esempio).
Adam Duritz, oggi 58 anni in giacca e pantaloni di jeans, è di un’immediatezza spiazzante, la sua voce è sempre visivamente evocativa. Ha portato avanti un intenso dialogo senza pause con il pubblico, recitando pezzi di vita, che fossero i suoi stessi testi o randomici sprazzi di memoria come una sbronza finita a cantare (male) in una trattoria a Modena. In due ore di discorso, Duritz, insieme ai suoi eccelsi compagni di viaggio di una vita, ha arringato la sala saltando sul palco, suonando il piano, occhi vivi e vividi puntati nella camera di quelli degli spettatori. Li ha intrattenuti con le coralità di Mrs Jones e una scalcitante festa di Hanginaround , e invitati a riflettere con i monologhi più intimamente tormentati come Anna Begins o nella recita a voce spezzata di Colorblind, che ci è arrivata come una sottovoce potente presa di coscienza di una diagnosi terminale.
E’ un concreto interprete delle proprie canzoni, Adam Duritz, dalla prima all’ultima parola. Senza barba e rasta, si presenta come un profeta dei contrasti. Ecco, il “contrasto” è stato il minimo comun denominatore ieri sera, ma in realtà lo è di tutta la produzione della band. Cantare dalla ricca e soleggiata California alle distonie delle periferie dell’hinterland americano è già di per sè un’ambiziosa e sofisticata scelta politica, che però i Counting Crows hanno svolto per decenni, iniziando dai garage e gli open mike della Bay Area, senza subire particolari contraccolpi elettorali, anzi producendo pezzi senza età nè confini come Round Here e Omaha. Padroneggiare i bordi del brutto e del bello per riunirli in un sentimento generazionale in un Paese dalle infinite frontiere come gli Stati Uniti non è un semplice esercizio di stile, è una crociata che solo l’erosione del tempo può certificare se di successo o se si tratti dell’ennesimo Vietnam culturale.
A giudicare dall’affetto percepito ieri nella sala del Teatro Dal Verme, si direbbe che la missione ha avuto degli ottimi risultati. Duritz avrebbe potuto anche stonare, i californiani avrebbero potuto stravolgere la setlist (quella di Roma di qualche giorno prima era leggermente diversa) e non sarebbe stato un problema: c’era l’abbraccio di un concetto di condivisione, quello che persone e generazioni hanno saputo cogliere nel lavoro dei Counting Crows, che va oltre il giudizio della performance stessa. Questo è il risultato di trent’anni continuo amore per la musica di un gruppo che pure nel successo ha mantenuto l’approccio pratico ma ostinatamente mai del tutto rassegnato di un innamorato fisso di fronte alla complessa impossibilità del suo desiderio. E certo, sono cambiati, sono sicuramente invecchiati e non potrebbe essere altrimenti; ma non nello spirito con cui continuano la loro crociata. A quasi sessant’anni di esperienze e viaggi, non hanno ancora abbandonato mire espansionistiche e l’idea di darsi a concerti di reunion sembra (fortunatamente) un’ipotesi lontana.
Quindi, dove, come saremo e cosa ameremo tra trent’anni? Possiamo anche comportarci come le onde di un mare morrisoniano, ed illuderci di poter evitare di farci erodere dalla vita, come quando con malinconica e un tantino ipocrita approvazione scopriamo di entrare ancora nei jeans del liceo, che non buttiamo mai ma comunque non metteremmo più. Ci vuole del coraggio ad accettare i contrasti del tempo, a mettere a nudo davanti a tutti l’incidere del tempo, l’accettazione di limiti personali o condizioni che ci portano a vivere la nostra vita come osservandola da un’altra stanza (così ha detto il frontman del gruppo parlando del proprio disturbo dissociativo) a pochi metri da una schiera di persone che per natura, nascono, crescono, ti ascoltano (te o la tua musica, o qualunque cosa tu produca) e ti giudicano. E’ quello che fa chi ha messo se stesso in canzoni che hanno suonato in più o meno ogni radio d’America, e ieri anche al Teatro Dal Verme. In breve, non è importante cosa, ma che ci credi. La maggior parte di noi neanche proverebbe a sfidare se stessi. E’ il problema di tutti, ma ci credono in pochi.
Clicca qui per vedere le foto dei Counting Crows in concerto al Teatro Dal Verme (o sfoglia la gallery qui sotto)
COUNTING CROWS: la scaletta del concerto di Milano
Mrs. Potter’s Lullaby
Richard Manuel Is Dead
Mr. Jones
Colorblind
Butterfly in Reverse
Omaha
St. Robinson in His Cadillac Dream
Anna Begins
Miami
Blues Run the Game
God of Ocean Tides
The Tall Grass
Elevator Boots
Angel of 14th Street
Bobby and the Rat‐Kings
Rain King
A Long December
ENCORE
Round Here
Hanginaround
Holiday in Spain