Articolo di Alvise Salerno | Foto di Marco Arici
BHMG.
Basta scrivere queste quattro lettere per sintetizzare parte di un movimento che ha quasi del tutto monopolizzato il mercato musicale italiano.
Ma cos’è BHMG? Tecnicamente, è l’etichetta discografica fondata da Sfera Ebbasta e Charlie Charles e che, oltre il padre padrone della trap del nostro Paese, ha nel suo roster Elettra Lamborghini e Guè Pequeno.
Semplicisticamente, BHMG è quel che vince a mani basse nella generazione 14-25 anni.
Dovevate esserci, ieri sera all’Ippodromo San Siro, per il Mamacita Festival. Migliaia di ragazzini lobotomizzati davanti al trapper di Cinisello Balsamo, il twerk di Elettra Lamborghini e il (qualsiasi cosa fosse, beato chi sia riuscito a capire anche solo una parola) di Guè Pequeno. Quello che doveva essere il main event, J Balvin, alla fine è stato solo il contorno e, lo dico fin da subito, sarà il contorno anche di questo articolo.
Ad un certo punto ho guardato le facce di chi mi affiancava e ho visto gli stessi sorrisi ebeti che facevo pure io quando, alle 13:50, correvo a casa da scuola media nel 2002/2003 per guardare le puntate in prima visione di DragonBall Z. Gioia e giubilo così non si vedevano da tempo. E di concerti, soprattutto quest’anno, ne ho visti molti. Occhio però, fate attenzione ai gradi concettuali di piacere musicale e, in questo caso, lasciate stare e mettete da parte le lacrime delle fan, ad esempio, di Irama, Riccardo Marcuzzo e Benji & Fede in crisi ormonale, quello è un altro discorso. Quello, più che musica, è puro piacere estetico che passerà con il tempo.
Questo qui del Mamacita, invece, è proprio un altro presupposto. Non ci sono ormoni in subbuglio, non ci sono lacrime folli e immotivate per gli addominali scolpiti o il sedere perfetto della propria star preferita. E’ tutta storia a parte.
Che poi, a dirla tutta, è anche bello vedere questi ragazzi così appassionati e fedeli in un mondo in cui avere tutto significa non avere niente.
Tutti noi, che rispetto i quindicenni di adesso abbiamo giusto un paio di anni in più, veniamo dalle stesse identiche sensazioni nelle nostre rispettive fasi adolescenziali. Negli anni ’90 erano i Backstreet Boys e le Spice Girls, nei Duemila le popstar di varia natura e genere, poi è stato il momento della EDM e del Tomorrowland uber alles e, ora, Spotify alimenta costantemente la trap e il reggaeton.
Ci sta. Ogni cosa figlia del proprio tempo, niente meglio e niente peggio.
Perché dovrebbe essere un problema stare a guardare il fondoschiena leopardato di Elettra Lamborghini che twerka (male), quando noi da ragazzini abbiamo passato tempo a idolatrare e fantasticare su Rihanna, Britney Spears, Beyoncé, Katy Perry o una a scelta delle Spice?
Perché dovrebbe essere un problema guardare per 45 minuti Guè Pequeno e non capire una sola parola di quel che dice? Non venite a raccontarmi che quando cantavate in inglese maccheronico a 15 anni, in realtà, avevate ben chiare tutte le parole dei vostri artisti preferiti. Non ci credo neanche se lo sento. Il massimo che riuscivamo a fare, me compreso, a quell’età, con l’inglese era ripetere a pappagallo “yeah, good, wow”. Guè è lo stesso, ma con l’italiano.
E poi c’è Sfera.
Sono costretto a fare una doverosa premessa. Da quando la trap domina in Italia ammetto di essere molto in difficoltà. Non capisco, non riesco a seguire i concetti, non trovo logici i testi e non rientra nei miei canoni stilistici il concetto di “trapstar” con marchi visibili a distanza, brillocchi e catene d’oro. Sarà anche perché a Palermo, da dove vengo io, se vedi uno con la catenazza d’oro come quelle di Sfera è facile che parta una sana e divertente presa per i fondelli che inizia oggi e finisce nel 2025. Ma questo è un altro discorso, non divaghiamo.
Dicevo, io non capisco la trap. Non capisco Sfera Ebbasta.
Proprio per questo motivo, da qualche tempo ho deciso di entrare in modalità “ascolto passivo inglese”. In pratica faccio finta che Sfera canti in inglese (esatto, tipo Guè Pequeno ma più comprensibile) e mi godo solo le melodie. Le produzioni sono straordinarie e al passo con i tempi a livello internazionale, su quello bisogna solo alzare le mani e ammettere la netta superiorità dei producer che collaborano con S.€. rispetto tutto il resto del panorama italiano.
Su Elettra sorvolo a piè pari. Non c’è quasi nulla da dire a parte il twerk fatto malamente, le canzoni in playback su cui, ogni tanto, provava a cantare e i capelli lunghi fino alle ginocchia. Ha cantato le canzoni, tutte uguali, del suo album Twerking Queen (e se lei è la queen, Nicki Minaj è una specie di divinità astrofisica). Fine.
Già detto, in parte, degli altri due, aggiungo una nota sulle special guest, sia di Guè che di Sfera: Lazza, Capo Plaza, Drefgold i più noti.
Il primo, perfetto sconosciuto per quanto mi riguarda, è stato sul palco con l’ex Club Dogo e non ho neanche capito bene i gradi di parentela tra i due. Lui invocava un urlo per lo “zio Guè”, Guè incitava l’applauso per “cugino Lazza”. A posto così.
Capo Plaza, salito sul palco sempre con Guè, lo conosco molto bene. Ho lavorato con e per lui fino a qualche mese fa e ricordo ancora quanto astio provassi nel dovere spingere un brano e un video sui social come quello della hit Tesla e quanto, invece, mi gasasse una canzone come Giovane Fuoriclasse. Odi et amo, insomma. Ammetto che Plaza spacca in ogni contesto e occasione. Questo è il suo momento, giusto così.
A proposito di Tesla, il terzo elemento di quella canzone, oltre lui e Sfera, è Drefgold. Un ragazzino con i dreadlock verdi che cammina con il borsello e il cappello alla marinara, tipo parcheggiatore abusivo nelle spiagge estive per farvi capire. Altissimo livello.
E’ salito sul palco con Sfera, tempo di una canzone ed è svanito nel nulla. E i tre, insieme, non hanno fatto Tesla. Fortunato io, per dire.
Insomma, come avrete capito, la BHMG ieri sera ha ottenuto il massimo risultato con il minimo sforzo, in attesa di conoscere i dati di vendita e la posizione in classifica della Lamborghini venerdì prossimo.
I ragazzini erano felici, i papà dei ragazzini un po’ meno e poi c’erano quelli come me, nel pit proprio davanti al palco, spettatori non paganti di una generazione esaltata. Per fortuna si tratta dell’esaltazione della musica e del ballo caliente. Finché dura è fortuna.
Cari papà vi capisco, non deve essere facile passare dai Tears For Fears e i Genesis a Sfera Ebbasta e Guè Pequeno, ma per amore dei figli si fa questo e altro.
E alla fine arrivò J Balvin, il main event su cui, in realtà, da dire c’è molto meno di quanto detto fino ad ora. Rispetto agli altri tre sopraelencati, lui canta e lo fa pure bene. Due ore di hit in loop, reggaeton continuo e inesorabile ma, alla lunga, così stancante da far scegliere a buona parte del pubblico di andare via prima della fine della scaletta.
La caratteristica principale di Balvin è di essere una playlist top di gamma che cammina in giro per il Mondo. Ascoltare lui o ‘Latino Caliente’ su Spotify è la stessa cosa, le canzoni sono quelle.
Da una delle ultime hit, Machika, fino al must del 2018 I Like It con Cardi B, le ha fatte davvero tutte ma, in fin dei conti, di spettacolo puro ce n’è stato davvero poco. Solo il primo medley ha regalato qualcosa di diverso da vedere, con l’ingresso di otto ballerini vestiti da omini Michelin. Fine. Nella summa totale, Mamacita ha svolto il suo ruolo e regalato una giornata intera di ballo e divertimento leggero. Complimenti a Max Brigante, il ‘Francesco Totti’ dell’organizzazione, che è stato capace di costruire un impero in questi anni. Lode e merito a lui, conscio già da tempo che l’unica cosa che avrebbe potuto rimpiazzare la dance nelle radio e nei festival sarebbe potuto essere solo il reggaeton, affiancato a stretto giro dalla trap. Così è, se vi pare.
Amanti della grande musica andate in pace, non è tempo per voi. Qui si twerka. Amen.
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