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Reportage Live

Mi amor no tiene esperanza, ma in DEVENDRA BANHART si’ che spero. Lo show del profeta dell’assurdo a Milano.

Il mistico della musica e la sua band di profeti indecifrabili ieri 21 novembre all’Auditorium di Milano tutta hanno portato la loro parabola. Al gusto psichedelico di farsa, ma sempre di gran qualita’.

Photo credit Luca Marenda | Thanks Wordsforyou

Articolo di Marzia Picciano

Avevo individuato il concerto di Devendra (Obi) Banhart, il cantautore nato a Huston e cresciuto tra Caracas e la California in versione live ieri 21 novembre al Teatro Fondazione Cariplo di Milano, come il mio obiettivo numero uno di questa Milano Music Week 2023, sicuramente perche’ insomma, volevo vederlo dato che non e’ cosi frequente che il texan-venezuelano sia effettivamente ospite del Bel Paese (oggi sara’ a Trieste, per dire), ma principalmente per il livello di estrema fascinazione che vivo nei confronti di questa figura, questo artista. Gia’ che non ho potuto seguirlo nel talk pomeridiano con Guinevere.

Lo hanno definito inafferrabile, il signor Devendra, per la critica musicale. Uno che spazia da scriteraiato nel contenitore dell’indie, aggiungendo il folk, le vibes di un gringo sudamericano mistico nel giorno dei morti, il blues, quello sottotono blu importante che suona in Flying Wig, la sua nuova fatica in promozione in Europa in questo tour che lo ha visto con noi ieri sera, ma anche sforando nell’alt/art music, senza rinunciare all’hippie e a un viscerale estetismo che si muove sinuoso nei disegni delle sue mani in preda al momento creativo della performance. Uno stregone tribale con le movenze di Dorian Gray, per me. “Genio” per il club dei radical chic senza radical presenti. Un matto con la sua verita’, per chi non sa interpretare il black humor di una Sibilla Cumana in stato di trance.

Devendra Banhart in concerto a Milano | Photo credit Luca Marenda | Thanks Wordsforyou

E’ stato tutte e tre queste cose, senza sconti, anzi ha persino rafforzato la convinzione barbosa che tra i fenomeni da combattere oltre al climate change ci sia la gentrificazione hipster delle sale dei teatri (e ieri in sala c’era pure l’Assessore Sacchi). Si conferma essere l’evento – almeno per me – della Music Week. Persino la scelta della band di supporto, i berlinesi John Moods, un trio che oscilla tra James Taylor e Simon & Garfunkel (anzi la loro Talk To Me e’ la versione, sotto acidi, di un Elvis che ha passato almeno una settimana a pane, Taylor e signori del suono del silenzio). Delicatissimi, da quando non vedevo un flauto traverso sul palco, di un teatro, poi. Perfetti. Hanno una nuova fan.

Ma torniamo a Devendra. Si inizia con Twin, perche comunque stiamo presentando il nuovo album, ce lo dice anche la grafica blu in penellate astratte dietro la band che ci fa capire da subito: mettete da parte le vostre smanie di estetismo, qui si fa sul serio, si fa arte, e infatti ogni pezzo e’ un flusso di sound e coscienza. Dell’ultimo album ci saranno Sirens, Nun, Sight Seer e non solo. Poi e’ necessario un mix del passato, con enormi mancanze, lo diciamo da subito, perche’ molte sono mancate, non so se per una decisione un po’ divertita di Devendra, della serie: ve le meritate? Ad ogni modo. Ce le siamo meritate tutte le altre, con tutti i boati di acclamazione e mani battute a tempo per Fur Hildegard Von Bingen, uno spettacolare crescendo di batteria nella visionaria Golden Girls, Bad Girl, Mi Negrita, Never Seen Such Good Things, quest’ultima anticipata da un momento cover. Si, della sua venerata Madonna, la Regina che ci ha dato tutto nelle sue parole, Don’t Tell Me cantata da Sofia Arreguin alle tastiere. Fa anche suonare il chitarrista Huw Hawkline, con la sua Milk For Flowers. Mai viste tante cosi belle cose (non) andare male. O forse e’ un male controllato?

Devendra Banhart in concerto a Milano | Photo credit Luca Marenda | Thanks Wordsforyou

C’e’ qualcosa di sacro e magico in questo soggetto, alto e sottile, in cardigan marrone e mocassini che si arriccia come un tic il ciuffo piu’ a nord della sua chioma nera. Parlami, o Divo. In inglese, spagnolo, ma anche in tedesco (grave mancanza nella scaletta di ieri di My Fine Petting Duck). Lo stato onirico e di profondo languore che caratterizza i versi e le melodie di Banhart, mescolata a un uno incredibile degli strumenti e della band (io totalmente ipnotizzata da Gregory Samuel Rogove scalzo alla batteria) ci porta costantemente a chiederci se stiamo sognando, ma soprattutto in che razza di sogno siamo? Se un Dali’ potesse colorare e sciogliere tutti i miei incubi in palette autunno e armocromie da meriggio pallido e assorto, probabilmente in tutti i miei sogni eccheggierebbe Santa Maria Da Feira, pezzo piu’ volte chiamato ieri. Si, perche Devendra ha rotto la barriera del palco del teatro e quasi mellifluo ha detto: accettiamo richieste. Pescatore di anime e velleita’ che non sei altro, Devendra. Anche perche tutti hanno chiesto quei brani, Carmensita e Baby, che poi ha tenuto fuori dall’encore (maledetto). Invece ha regalato un medley carosello in long version (ironico, ovvio) di Santa Maria, A Sight To Behold e Theme For a Taiwanese in Lime Green.

Ironia, assurdo, l’ipotesi di essere in una grande presa in giro da parte dell’artista piu’ eccentrico degli ultimi tempi. Per tutto lo show ho la netta sensazione che in realta’ Devendra si faccia un sacco di beffe di noi e ci guardi, sornione e divertito, sapendo che non potendone capire la lucidissima grand follie che guida la sua arte potremmo applaudire anche a una sua pernacchia, ancora urlando “genio”. Ci chiede i pezzi e poi non li fa, la scaletta li aveva, ma a scelta ci ha dato in encore Fancy Man e Fig In The Leather – urlando da steso per terra “ITALODISCO“, al che ho veramente temuto e sperato in una cover. Un memento mori, che la vita alla fine non ti da’ mai i limoni che vorresti, solo amarezze? E forse, come scriveva qualcuno, oggi non e’ piu’ il piu’ eccentrico tra tutti, perche se c’e’ una cosa su cui si fa business e’ l’essere strani da morire, e anche se indecifrabole, Flying Wig dal vivo suona come Cat Stevens imbevuto di Cream piuttosto che come l’esercizio di catarsi per cui Devendra ha davvero bruciato i suoi diari, pero lo sento lo vedo lo percepisco. Devendra Banhart e la sua banda di mistici e’ il folle profeta di una musica che non avremmo da nessuna altra parte. Viene a calare il velo di Maya dai nostri occhi e dirci: cretini, ma non la vedete che la realta’ e’ indecifrabile? Allora perche’ vi sforzate di trovare dei riferimenti? E ci lancia un ordinato caos come alternativa ai nostri “ma”. Grazie Devendra, se potessi verrei a Trieste per cercare di fregare io te, ma per il momento mi lascio intortare perche del resto questo viaggio dell’assurdo mi piace anche se non lo capisco, e anche io urlo “genio”.

Devendra Banhart in concerto a Milano | Photo credit Luca Marenda | Thanks Wordsforyou

DEVENDRA BANHART – La scaletta del concerto di Milano

Twin

Fur Hildegard Von Bingen

Sirens

Golden Girls

Nun

May

Bad Girl

Sight Seer

Negrita

Love Song

Medley – Santa Maria Da Feira , A Sight To Behold e Theme For a Taiwanese in Lime Green

Dont Tell Me (Madonna Cover)

Never Seen Such Good Things

Fancy Man

Fig

John Moods – La scaletta

Coming To Life

Without You

Dance with the Night

Same as You

Talk to me

I wanted you

Back in the key of love

Written By

Dall’Adriatico centrale (quello forte e gentile), trapiantata a Milano passando per anni di casa spirituale, a Roma. Di giorno mi occupo di relazioni e istituzioni, la sera dormo poco, nel frattempo ascolto un sacco di musica. Da fan scatenata della trasparenza a tutti i costi, ho accettato da tempo il fatto di essere prolissa, chiacchierona e soprattutto una pessima interprete della sintassi italiana. Se potessi sposerei Bill Murray.

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