Articolo di Umberto Scaramozzino
Myles Kennedy, ancora lui, sempre lui. Citizen Swing, The Mayfield Four, Alter Bridge, Slash e una carriera solista che procede senza più indugi su dei binari che, forse, non tutti i fan avrebbero prediletto, ma lui ha scelto con fermezza. Torna a Milano, questa volta all’Alcatraz, e trova mille persone accorse come amici di vecchia data che rispondono con gioia alla proposta di una rimpatriata. C’è un clima disteso, arricchito da un affetto profondo e sincero che l’instancabile cantante di Spokane ha coltivato nei suoi fan lungo una carriera fenomenale. Un risultato che non si può dare per scontato e arriva come il frutto di tanti anni di duro lavoro, di dedizione e di cura per la propria arte. Un risultato ampiamente meritato da uno dei migliori cantanti rock della sua generazione.
È da poco uscito il terzo album in studio, “The Art of Letting Go”, che non aggiunge molto al discorso portato avanti in questi sei anni di progetto, ma lo migliora, lo consolida e dimostra una grande maturità, anche negli intenti. Molti fan degli Alter Bridge avrebbero probabilmente voluto vedere Myles lanciato in una carriera da cantautore più classico, con un folk rock vicino a Jeff Buckley e qualche ballata strappalacrime, di quelle di cui è anche disseminata la discografia del Alter Bridge stessi. E invece no: Myles adotta invece una approccio a metà strada tra l’hard rock e il blues, ma ben più heavy, soprattutto sui riff che in alcuni casi non hanno nulla da invidiare ai lavori dei suoi altri progetti. Questo terzo capitolo, di fatto, è il miglior lavoro di questa nuova fase della carriera e ci restituisce forse l’immagine più luminosa del Myles-artista, che si traduce anche in un Myles-performer in grande spolvero. Fina dalle prime battute appare felice, sorridente, sicuro di sé e sicuro della sua proposta musicale.
La serata è introdotta dalla title-track, magnificamente suonata dal power trio che vanta Tim Tournier al basso e Zia Uddin alla batteria. Zia Uddin, proprio lui: il batterista dei Mayfield Four che da tre decenni accompagna Mr. Kennedy e proprio per questo si merita una presentazione piena d’entusiasmo: “credo che sia uno dei migliori batteristi del mondo”, dice il cantante col cuore in mano. Proprio dal vivo, grazie anche alla grande perizia dei musicisti, ci si rende conto del vero motivo sul cambio d’approccio nella composizione della scaletta di questo tour. Rispetto a quanto visto in passato, questa volta il buon Myles decide di concentrarsi esclusivamente sui brani solisti, con qualche sporadica eccezione che a Milano fortunatamente non è “The Trooper” degli Iron Maiden, ma “All Ends Well” degli Alter Bridge, in una versione pazzesca che spacca quasi a metà la serata. Per il resto è tutto materiale che porta la firma esclusiva di Myles Kennedy e il motivo è che finalmente questo repertorio si regge sulle proprie gambe. Non serve più la promessa di una “Myles version” dei brani preferiti dei fan degli Alter Bridge e di Slash, perché si è creato un nuovo pubblico. D’accordo, forse del tutto nuovo non è, ma se non altro ha assunto la sua forma definitiva.
Il tiro del trio è notevole (“Mr. Downside” e “In Stride” veri highlights della serata) e la tecnica messa sul tavolo è tutto fuorché trascurabile. Non è del semplice hard rock fatto bene, perché quella voce non è solo una buona voce e quella chitarra non è semplicemente una buona chitarra. Myles è in qualche modo diventato un anti-divo pur avendone tutte le caratteristiche degli archetipi del “Guitar Hero” e del “Rock God”. Tra le persone con molto, moltissimo talento – quelle di cui l’industria musicale è sempre più carente, almeno nel senso più tradizionale del termine – lui è uno di quelli con il più alto grado di umiltà che si possa trovare in giro. Lo testimonia anche il suo modo di stare sul palco, sempre molto composto, in alcuni frangenti anche un po’ rigiro, ma totalmente naturale.
Dal pubblico durante quasi ogni brano di solleva un “Let’s go, Myles, let’s go” da uno dei fan più esagitati della serata. Il suono parte dal fondo della sala a inizio concerto e piano piano arriva sempre più vicino al palco, là dove anche il destinatario può finalmente sentire. La reazione? Myles Kennedy in purezza: cascando in un ingenuo e umilissimo malinteso, invece di interpretarlo come puro entusiasmo mediterraneo, lo prende come un invito a non tergiversare in convenevoli – centellinati, ma sempre spassosi – e abbandona senza esitazione le vesti dell’intrattenitore, per cimentarsi con ancora più passione in ciò che sa fare meglio: cantare e suonare.
Quanto parte “Love Can Only Heal”, forse l’unico brano che riprende e compensa un po’ quelle aspettative inattese di cui sopra e che infatti per poco non è finito tra gli scarti del primo disco, si rinnova un’eterna epifania. “Ecco perché sono qui, da quasi vent’anni” è la frase che arriva cristallina dalle prime file e che ben riassume il pubblico dell’Alcatraz. Amanti della musica hard & heavy che hanno trovato in Myles un granitico baluardo, un porto sicuro in cui tornare ogni volta che viene il dubbio che sia davvero tutto finito. Non importa se l’esigenza sia quella paradossalmente atavica e infantile di alzare le corna al cielo, oppure quello di sentire della buona musica eseguita ancora meglio: Myles Kennedy, da più di vent’anni, è qui per noi.