Articolo di Marzia Picciano | Foto di Andrea Ripamonti
Quando Shepard Farey ha iniziato a disseminare e far disseminare gli adesivi con il volto stencilizzato di Andre The Giant a Providence per poi esplodere un pó dappertutto nei primi anni ’90 aveva sicuramente una mezza idea di creare un effetto o fenomeno di massa coagulando dietro una delle Icon Face più riconosciute oggi in tutto il mondo i risultati di una sorta di esperimento sociale. O meglio, era deliberatamente il suo interesse. Non sappiamo se avesse immaginato che sarebbe stato esposto in una mostra dedicata a Milano, alla Fabbrica Del Vapore (insieme a Deodato Arte e Wuderkammern) che a sua volta avrebbe a ció dedicato l’area della sua Cattedrale, incensato nel capoluogo lombardo che aspira ad essere centro di tutto ció che è il trend che soffierà sugli animi europei e non solo.

Si potrebbe leggere dell’ironia in queste affermazioni, che tanto esiste ma non deve cogliere di sorpresa nè sminuire l’evento, anzi: nella foga di essere all’avanguardia, Milano si fregia di essere luogo di avvio in Italia di una mostra importante, per tantissime ragioni, tutt’altro che ironiche. E che ci sono state chiare da ieri, appena varcato l’ingresso della struttura, con lo stemma di OBEY sparato per tutta l’estensione del divisorio che ci porterà, parete dopo parete, a comprendere un artista che in questi anni è riuscito a unire arte e politica in quello che è, a tutti gli effetti, un manifesto del consumismo al contrario, focalizzato sull’uso delle forme pubblicitarie per un disinteressato, quanto più vivo, desiderio di chiamata alle armi contro la fine dei tempi che i nostri nonni stanno disegnando per noi.
Farey ha raccolto nel tempo l’aspirazione di Warhol, Lichtestein e compagnia cantante degli anni della nascente società dei consumi (trovare l’arte nel consumo, in breve), il militantismo dell’estetica di certe propagande sovietiche (è impossibile non sentire Rodčenko sotto l’uso brutale dei cromatismi complementari) e la cocente presa di coscienza della fine del sogno americano di fine secolo così ben espressa nel punk e nelle sottoculture skate in cui Farey ha iniziato e trovato la sua cifra, diremmo, sentimentale.

Difficilmente un artista che parla usando i caratteri a cui la pop culture (presente ieri, coraggioso nonostante l’attivo placcaggio di tutti i presenti, con un ancora più ferocemente pop giacca con scritto POLLINATOR) ci ha abituato rimane inascoltato, e infatti eccoci qui, con la scena della Milano alternativa (l’artista TVBoy, Hell Raton e Fedez presenti, anche perchè è la BLOEM di quest’ultimo che accompagna i partecipanti dell’happening) e il blessing istituzionale (Assessore Sacchi presentissimo) a celebrare il sorriso, amaro, di chi capisce (spero davvero) il retro-gioco del diktat OBEY, CONSUME, REPEAT.
E proprio per questo bisogna vedere la mostra di OBEY. Svestiamoci del senso dell’hype che ci guida, e l’acchiappa-like-ismo che vediamo dietro iniziative culturali cosi, si, ecco, pop. Togliamoci insomma l’etichetta del sistema “Milano-delle-week”.

L’esibizione è una delle più ricche rispetto alle opere esposte, ben strutturata rispetto a quello che si vuole ottenere: che lo spettatore entri nell’OBEY-pensiero, dai suoi albori e quindi arrivando ad oggi, arrivando alla visione degli eroi (anche loro sono stencibilizzabili, diventare uno sticker, qualcosa che appiccichiamo a noi e stigmatizziamo in un’idea), alla chiamata all’ecologismo (le onde di Hokusai sono trademark tanto quanto quello di Coca Cola dietro cui emergono le ombre delle piattaforme), al rapporto con la musica, che ha iconizzato anche dietro la chiamata alle armi di una sua fake-etichetta. Quello che rimane è la modularità, l’ossessiva ripetizione di formule (gli slogan pubblicitari come “Oil-based-policy”, i simboli della pace, gli sguardi densi di donne, i fiori), una formula facile da assimiliare, come è stato facile apprezzare la poster-art HOPE, non ufficialmente trasformata in campagna a supporto di Obama – una delle situazioni in cui la politica trova un alleato nell’arte oggi o forse viceversa, dal momento che ha contribuito a rendere Farey ancora più conosciuto, da chiedersi: “chi è saltato sul carro di chi?” E comunque ha perfettamente senso, perche la street art è militante, l’obiettivo di Shepard è “fenomenoligizzare” l’arte, e qui sta la sua genialità, mentre noi sorridiamo di fronte a tecniche misto carta che si susseguono istericamente intorno a noi.

Vedere la mostra di OBEY è un pó come vedere a che punto siamo arrivati, e prendere una posizione, perchè l’input morale che ne emerge dopo aver girovagato in questo ecosistema di icone e santini è di prendere posizione. Andare oltre la celebrazione del messaggio e abbracciarlo è la sfida più difficile per noi capitalisti abituati all’idea di un rassicurante grigio che difficilmente sfocia mai nel nero più assoluto. Ma per prendere seriamente in considerazione la street art, l’arte di Farey, o meglio l’arte dietro OBEY bisogna fare questo sforzo.
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