Articolo di Marzia Picciano | Foto di Davide Merli
Iniziamo con uno statement semplice: bisogna amare James Blake. Non vedo motivi per non farlo. Io amo James Blake, non potrei fare altrimenti. Lo amo da quando mi e’ arrivata notizia (sempre troppo tardi) del suo omonimo primo album, ormai quasi 12 anni fa, da quando ho ascoltato la prima traccia. Lo amo ancora di piu’ dopo averlo visto e sentito (in tutti i modi) al Fabrique di Milano (crediti a D’Alessandro e Galli), ieri 18 settembre, per presentare il nuovissimo Playing Robots into Heaven, prima tappa del suo tour europeo, pertanto “we can all fuck this up”, ha detto moderatamente titubante come tutti i profeti certi dei propri miracoli. E infatti.
Infatti chi è stato fregato e ridotto a insetto accecato da una luce dall’aurea potentissima eravamo io e tutta la folla milanese chiusa nel locale, sbatacchiata da acquazzoni e un traffico che hanno fatto iniziare l’intero concerto piu’ tardi – emergenzialmente comunicato sui social, per far si che tutti i paganti fossero presenti a questo spettacolo di formidabile bellezza (peccato per chi si e’ perso Actress, nome d’arte di Darren J. Cunningham, dj di lunga data, tanto quanto la stima del titolare di ieri del palco, che ha aperto il concerto), e convincersi che si, dobbiamo tutti amare James Blake.
Siccome il sapere dogmatico non e’ piu’ appannaggio di questi tempi e in fondo e’ sempre bene fare proseliti predicando il bello, provo a spiegare perche’ dovremmo concederci la possibilità di provare un sentimento unilaterale e acritico verso il signor Litherland.
Uno: perche’ e’ da standing-ovation. Sappiamo bene che al massimo questo e’ l’effetto, e stiamo sottintendendo la causa, ma poche volte accade di sentire, per un artista cosi giovane, una serie di applausi onesti, di cuore, condivisi, cosi spesso in tutta l’ora e mezzo di performance, tanto che pure Blake ne e’ toccato. I fattori sono molteplici, e il risultato di questa concatenazione di elementi e’ un’esplosione atomica, dentro di noi, non appena attacca Asking Me To Break, con questo leitmotiv cyborg che suona vagamente come un cortocircuito da Radiohead (precisamente: Everything Is in its right place). Playing Robots Into Heaven e’ un ritorno all’originale, che si tinge di ambient dance e computer music (e anche un po’ di sentimentalismo alla Liberato, azzarderei), rafforzando sempre di piu’ il magico connubio piano e voce, r’n’b e clubbing londinese, ma stavolta facendo il passo in piu: aggiungendo (o raggiungendo?) la dimensione cronemberghiana di una distopia fatta di luci e ombre.
Il nuovo album e’ anche la cornice, fisica oltre che spirituale, della riproposizione dei pezzi storici dell’artista, a partire dalla bomba del suo primo lavoro, Limit To Your Love, la ballad onirica spezzata dal silenzio, dalla malinconia di echi sincopati e dell’insanabile finitudine che anche i più puri dei sentimenti possono rivelare. In termini concreti, parlo di un parallelepipedo di LED che cinge Blake, Robert McAndrews e Ben Assiter e gioca a schermare, dietro una coltre di fumo, replicanti dai tratti umani che suonano computer ricreando lo scarto che sentiamo nel cuore quando precipitiamo, luciferini, da postazioni di estrema grazia. E allora black out, luci a intermittenza con contenuta veemenza inibiscono su Big Hammer la nostra percezione e ci aprono il terzo occhio: guardiamo dentro di noi. In poche mosse ci è stato dimostrato, senza altisonanti metodi Figueroa, in maniera quasi banale come fare delle luci un vero performer del concerto.
Bisogna amare James Blake perche, nella sua inarrivabile perfezione artistica, è profondamente umano, e ieri ha ricordato che prima di metterci le nostre dancing shoes e chiuderci come primati a dondolare su noi stessi bisogna aprirsi, comprendersi, abbracciarsi nella propria determinazione a volersi ferire, mortificare e quindi rinascere come cenerea fenice. E quando lo fa, come in Love Me In Whatever Way o nella sempre splendida cover di Frank Ocean, Godspeed, ci ammutolisce tutti (anche gli immancabili limoni si sono fermati).
E’ proprio questa la sua magia. Blake e’ un artista della solitudine, il più infido e ricco dei sentimenti umani. La solitudine che spilla dallo strumento del tormento esistenzialista per eccellenza, il pianoforte. Quella rannicchiata al sicuro nel suo sofferto, pieno e rotto timbro vocale. Ma soprattutto, quella dei silenzi. Se c’e’ qualcosa per cui dire che Blake e’ un rivoluzionario dell’elettronica e’ che ha messo come un qualsiasi vate rinascimentale l’uomo al centro del suo pensiero e ha fatto leva sulla sua paura atavica, quella del vuoto, per trovare un senso ai sintetizzatori impazziti di Fallback e le pieghe diaboliche dei jingle spezzati di Hummingbird.
Blake gioca con le pause gravi e gravide di inquietudine che insistono tra un tasto e spietate sirene notturne: in Tell Me scappiamo come drogati dai nostri peggiori incubi. Apre tutto, poi all’improvviso e siamo sul tavolo del chirurgo, nudi, nel disagio di una carne eccessivamente diafana, ci ergiamo come monoliti brutalisti in una piana senza speranza, e cadiamo in un loop di refrain e frasi campionate insistenti come una maledizione, come i fazzoletti di vergogna mortale di Bulgakov per le tante piccole Fride che abitano la nostra coscienza (and your Friends are Gone, ci sembra suggerire l’illuminante Retrograde). Ci abbandoniamo, rassegniamo alla nostra imperfezione. Non siamo degni ma siamo comunque assolti, possiamo ballare – eppure non lo facciamo, siamo attoniti.
Bisogna amare Blake perche arriva come una lama al rosso della carne, ci scuote. Non so se l’artista sia mai stato cosciente di questo effetto, ma il pubblico ieri sera lo era, scosso, inebriato, inebetito, assorto. Non puoi lasciarti andare quando ti hanno appena colpito in faccia e la sua musica è abbastanza compassionevole da accarezzarci come una madre infinita. C’è un coraggio che pochi come il producer e artista britannico hanno avuto: non aver paura di vendere la propria vulnerabilità come la migliore delle merci, anzi metterla alla base della dance e, con la gentilezza e calma dei grandi, spiegarla, pezzo dopo pezzo. Chi di noi è in grado di farlo, scagli la prima pietra. Sarà un deserto di pagliuzze. Grazie James Blake, per aver fatto la rivoluzione degli uomini e averla vinta, Vincendoci tutti.
Clicca qui per vedere le foto del concerto di James Blake a Milano o sfoglia la gallery qui sotto:
James Blake: la scaletta del concerto di Milano
Asking To Break
I Want You To Know
The Limit to Your Love (Feist cover)
Life Round Here
Big Hammer
Loading
Fall Back
Tell Me
CMYK / Stop What You’re Doing
Love Me in Whatever Way
Can’t Believe the Way We Flow
Hummingbird (Metro Boomin cover)
Fire The Editor
Voyeur
Retrograde
Godspeed (Frank Ocean cover)
If You Can Hear Me
Playing Robots Into Heaven
Encore:
Modern Soul