Articolo di Simona Ventrella | Foto di Andrea Ripamonti
L’ultima volta che ho visto Ryan Adams era il 2017, seduta sotto le stelle dell’Anfiteatro del Vittoriale ho assistito a un concerto che ricordo ancora oggi, con un filo di nostalgia, come una notte indimenticabile. Dopo 8 anni rivedo Ryan Adams salire sul palco del Teatro Dal Verme di Milano, e tutto ad un tratto sento, tra le poltrone di velluto e drappi rossi, che la magia potrebbe diffondersi all’improvviso nell’aria. L’occasione è un anniversario importante, i 25 anni di Heartbreaker, l’album che ha segnato il suo debutto musicale nel 2005.La scenografia, essenziale nella sua bellezza, poteva sembrare quella di un salotto di un appartamento di Brooklyn, qualche tappeto sul pavimento, luci morbide, e al centro, una serie di chitarre pronte e ben accordate. Fin da subito la sensazione è stata quella di non essere solamente ad un concerto, ma un incontro intimo, come se fossimo stati invitati a casa sua per una serata tra amici. Quelle in cui spesso la musica si fonde con le storie più vere, dove le canzoni non sono solo melodie, ma confessioni.
Non c’era niente di superfluo, solo un’atmosfera raccolta, e ognuno di noi era lì pronto, per ascoltare. Lui con un sorriso che tradiva la sicurezza di chi sa che la musica basta per incantare, ha dominato la scena da solo. Un uomo ormai sulla cinquantina, come ha tenuto a precisare più volte, in un completo dall’eleganza retrò e la chitarra tra le mani. Ogni accordo è stato come un sussurro, che si espandeva nell’aria senza mai urlare, ma con una potenza che ti avvolgeva, con la stessa intensità che avevo stampato nella mia memoria.

Il concerto non è stato solo una celebrazione di Heartbreaker, ma una panoramica della carriera, impressionante come quella voce sia rimasta uguale, come se il tempo si fosse fermato solo per lui. Ogni parola cantata è stata un piccolo colpo al cuore, ogni nota di chitarra un invito a seguirlo in un viaggio che, pur rimanendo un’esplorazione dell’anima, è stato anche spiazzante nella sua energia. Una voce , ancora ricca di quella verità che trasmette emozioni senza filtri, ha dato forza a ogni canzone, come se ogni singola nota fosse una dichiarazione di vita, ogni pausa un respiro tra passato e futuro. L’atmosfera, tra riflessioni sulla vita e ballate struggenti, era quella di un uomo che sa esattamente dove vuole andare, pur nelle sue piccole follie. Ogni canzone anche se conosciuta e familiare è risuonata fresca e viva, come se fosse appena nata. Quel tocco di innovazione e la capacità di riarrangiare la propria musica che Ryan non ha mai smesso di portare con sé, ha reso ogni esecuzione unica, realizzando un viaggio continuo, mai uguale a se stesso.
Ma, come ogni grande artista, ha saputo sorprendere anche con il suo approccio genuino e irriverente. Il rapporto con il pubblico è stato con mia grande sorpresa parte pulsante dello spettacolo. Le sue battute ironiche sui selfie al concerto e sull’abuso degli dei smartphone hanno strappato sorrisi, ma anche fatto riflettere, perché questo è il suo modo di scherzare, tra un gioco di parole e una riflessione sulla modernità.

Abbiamo assistito anche ad un momento surreale, ma incredibilmente autentico, quando ha invitato un giovane fan a salire sul palco per suonare una canzone che lui non voleva suonare. Non si trattava solo di un gesto simpatico, ma di un atto che mescolava l’arte e la vita, come se nulla fosse mai troppo importante o troppo lontano. Il ragazzo, un po’ imbarazzato e sorpreso, si è visto proiettato in un’esperienza che, probabilmente, non dimenticherà mai e quando un altro fan si è trovato a fare un selfie con lui, sembrava di assistere a una serata tra amici, senza le barriere che spesso ci separano dai grandi artisti.
Ogni provocazione, ogni frecciatina sul “disordine” del concerto, era un invito a lasciarsi andare, a vivere pienamente quel momento. La sua performance intensa e avvolgente, è stata un atto di pura connessione con il pubblico, che ha riempito ogni angolo del Teatro Dal Verme.
Alla fine, le luci si sono abbassate, ma l’applauso, tramutato in una standing ovation non è stato solo un saluto: era il riconoscimento di un artista che, con la sua presenza unica, riesce a toccare il cuore di chi lo ascolta. Ryan Adams resta uno dei cantautori più intensi, veri e imprevedibili che possiate trovare in giro, un narratore delle emozioni più profonde, un amico un po’ caotico che condivide storie di vita. Non importa se il concerto è durato tre ore: è stato come fare una lunga chiacchierata con un amico che ha molte storie da raccontare. E noi, ovviamente, ci siamo sentiti fortunati di ascoltarle tutte.
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Ryan Adams – la scaletta del concerto di Milano
To Be Young (Is to Be Sad, Is to Be High)
My Winding Wheel
Amy
Oh My Sweet Carolina
Bartering Lines
Call Me on Your Way Back Home
To Be the One
Why Do They Leave?
Shakedown on 9th Street
Don’t Ask for the Water
Damn, Sam (I Love a Woman That Rains)
In My Time of NeedSweet Lil’ Gal (23rd/1st)
Set 2:
Ashes & Fire
Two
Dear Chicago
Lovesick Blues (Elsie Clark cover)
I’m So Lonesome I Could Cry (Hank Williams With His Drifting Cowboys cover)
Everybody Knows
Gimme Something Good
Lucky Now
To Be Without You
Idiot Wind (Bob Dylan cover)
New York, New York
When the Stars Go Blue
Come Pick Me Up

Marco Riboni
26/03/2025 at 20:50
Complimenti per la recensione, hai colto nel segno l’atmosfera che si è creata,proprio come se fossimo stati ospiti di casa sua,nel suo salotto,tra una chiacchierata e tante belle canzoni.
Speriamo torni al più presto, magari anche in veste elettrica.