Articolo di Marzia Picciano | Foto di Andrea Ripamonti
Quanto sei bella, Annie Clark. Non potrei iniziare il racconto di un concerto altrettanto bellissimo, quello di St. Vincent, appunto Annie, ieri 22 ottobre a Milano, Fabrique, per l’unica data italiana del suo All Born Screaming Tour, subito dopo aver messo in atto un pezzo di arte al Prado di Madrid performando l’album omonimo nella stanza dei Goya. Un tributo in linea con l’anticipo di Todo Nacen Gritando, la versione spagnola del disco che vede la nostra eroina spendersi, come tanti cantanti USA dell’indie rock stanno sperimentando, nella lingua dei cugini iberici e non solo. E comunque sempre con una classe e credibilità che rendono la chanteuse moderna così ultraterrena.
Ecco, St. Vincent è fuori dal concetto di terrestre, e questo è fondamentale per comprendere il tema della bellezza. Ne ho già parlato di recente dopo lo show di Joan As A Policewoman, ma qui siamo a livelli più carichi, no, la Clark non scende liscia come un buon bicchiere di vino nel corpo. Non siamo di fronte a quel genere di concerto. Qui siamo di fronte a una bottiglia da finire, da soli, in una notte intera.

Ottimo antipasto é Anna B(eatrice) Savage, cantautrice che modula una voce profonda, tra Aldous Harding e Anna Calvi, alla follia melodica di Fiona Apple, buttandoci dentro un sacco di vibrazioni elettroniche. Crown Shyness, del suo nuovo disco InFLUX, ne é un esempio perfetto e anche una bellissima metafora sulle relazioni. Chi poteva dirlo che le piante sanno gestire la fine delle relazioni meglio di tutti.
Tornando ad Annie. All Born Screaming è un disco che porta St. Vincent concretamente sul pianeta del “rock”, dopo tanto viaggiare per mondi diversi (incluso quello di David Byrne) e sempre estremamente ricercati in uno spazio di pulsazioni eclettiche, non banali, assolute. E l’impatto è evidente: è la terza volta che la vedo e qui, ieri, la Clark finalmente mi porta nell’iperuranio. Entra in una guisa da palcoscenico finalmente scevra e libera, finalmente da quelli che sono i virtuosismi di una caccia all’essenza, un fiume in piena che esonda solo in precisissime voragini. Merito anche della band che l’accompagna (bravissimi Jason Falkner, il batterista Mark Guiliana, Rachel Eckroth alle tastiere che la segue nei brani più intimi, e la nuova fighissima acquisita, la modella chitarrista Charlotte Kemp Muhl), con cui é evidente il sodalizio artistico e soprattutto cerebrale che li guida.

In breve. St. Vincent mi entra dentro dal momento in cui sul palco si staglia in controluce, la sua voce da mezzosoprano prima chiarissima e poi roca, per aprire con Reckless il suo show milanese. E lì capisco subito.
Se da sempre sono attratta dalla nostra cantautrice di Tulsa, dal modo in cui le sue labbra si disegnano su un viso diafano quando canta, dai suoi testi intensi, diretti, a volte quasi sarcastici, spregiudicati dalla sua figura sempre provocatrice ma mai volgare, dalle sue mise minimal black e le gambe perennemente in vista sul palco, beh, un motivo penso ci sia. È che St. Vincent parla una lingua precisa ad animi inqueti particolarmente recettivi. La lingua del sesso.
Non c’è niente in St. Vincent che non lasci spazio a un insistente, insinuante e catalizzante percezione di intimità che va ben oltre il concetto di condivisione tra pochi.
È più perversione, uno sguardo perennemente malizioso che insiste su di chi ascolta, perturbandolo e strattonandolo tra ballad delicatissime solo voce e piano come Candy Darling e folgorazioni da virtuosa delle corde come Pay Your Way In Pain. St Vincent é quella che vola alto ma anche la Cheerleader malinconica che vede l’America “with no clothes on“, l’apparizione in una stanza delle tue migliori fantasie, la collega dell’ufficio inarrivabile e irraggiungibile nella sua aurea di evanescenza di cui pensiamo di tutto. É quella lì mentre si attacca al pubblico nello stage diving di un pezzo carico di speranza come New York salute deliziata e urla “I am a cunt“. É la malinconia mentre dedica a tutti gli artisti, o alla “sua” Sophie (Xeon), Sweetest Fruit. Come non venire assorbiti da una voglia tutta malata di farla girare per il Fabrique? E così é stato.

Perché poi la vedi vaneggiare, sbandare, saltare e poi riprendersi in un nanosecondo e mettersi in posizione, perfetta, per attaccare su Birth In Reverse proprio mentre pensavi di stare per perderla.
Non c’è caso, o errore che sia davvero tale nell’universo artistico di Annie Clark.
Lo show è un mezzo per entrare nell’anima e aprire un pó di più la propria, e scoprire che alla fine siamo tutti candidamente sporchi, anche se magari raffinati, ben vestiti, ben intenzionati, faremi tutti grandissime cose e altrettante cazzate. St Vincent ci guarda dall’alto del palco e dei suoi tacchi e non ci giudica, perché é pronta a scuotersi come una liceale o un’anima persa in presa al delirio, sorridere come una ragazzina sopresa dalla sua bravura per poi tornare rapidissimamente a imbracciare la chitarra elettrica o impore le mani in plasticissime pose ricche di pathos e dolcezza, tutta femminile, come quando ferma la scarica di inizio set per un’intimistica Violent Times.

Se c’é qualcosa che St Vincent non riesce a reprimere, nonostante il suo trasformismo attivo di disco in disco (o meglio, di progetto artistico in progetto artistico), l’androginismo ieratico che a volte ha toccato (come nell’art pop di Los Ageless), é la sua femminilità totalizzante, che si concretizza, dall’inizio della sua carriera, nei refrain quasi disneyani di Marrow rotti da violentissime sgommate di chitarra.
Con lei é sempre un correre e fermarsi, correre e stamparsi graziosamente contro la teca del presente, o del futuro, in un ritmo spiazzante che ci ricorda le scorribande sentimentali dei primi approcci, quella foga che non siamo riusciti mai a gestire completamente nei nostri impeti adolescenziali e che riemergono senza pietà quando ci lasciamo un pó andare, di fare casino, litigare, saltarsi addosso, fare l’amore, tutto insieme. E senza mai mancare del mistero che tutto questo deve avere, e mantenere: quella forza speciale che ci tiene uniti. Anche perché, ci dice la Clark a fine concerto, prima di lasciarci su una Somebody Like Me delicatamente in bilico tra sé stessa e il resto del mondo, noi siamo tutto quello che abbiamo, stringiamoci forte in questi tempi veramente violenti – ma veramente forte. E continuiamo a fare cose forti.
Clicca qui per vedere le foto di St Vincent in concerto a Milano o sfoglia la gallery qui sotto
ST VINCENT – La Scaletta del concerto di Milano
Reckless
Fear the Future
Los Ageless
Big Time Nothing
Marrow
Violent Times
Dilettante
Pay Your Way in Pain
Digital Witness
Sweetest Fruit
Flea
Cheerleader
Broken Man
Birth in Reverse
Hell Is Near
Candy Darling
New York
Sugarboy
All Born Screaming
BIS
Somebody Like Me
ANNA B SAVAGE – La Scaletta del Concerto di Milano
Corncrakes
Donegal
Crown Shyness
The Ghost
Feert of Clay
Pavlov’s Dog
InFLUX
