Articolo di Marzia Picciano | Foto di Andrea Ripamonti
Come si sta al cospetto degli dèi?
Iniziamo il racconto del ritorno live e discografico dei The Afghan Whigs a Milano, in Santeria Toscana, ieri 25 ottobre, con una domanda esagerata. O forse no. Magari un po’ decontestualizzata, ma qui si va per pensieri associativi, ed è questo il tema che mi sono posta ieri davanti Greg Dulli, Rick McCollum e John Curley, finalmente di nuovo insieme dopo una pausa di diversi anni. Mi è subito venuto in mente Eschilo: secondo il tragediografo greco innanzitutto non bisogna rendere invidiosi gli dei con atti di hubris, aizzandoli a punirti. Eschilo era un innovatore della tragedia: aveva introdotto i dialoghi quando ci si limitava a monologhi in successione, ma aveva comunque grande rispetto per la gestione “frontale” del dramma, ragionando per maschere che sono archetipi, principi e valori assoluti sempre più sull’orlo della trasformazione in vasi di Pandora. Per qualche assurda ragione non ho potuto fare a meno di trovare un parallelismo anche nel concerto di ieri.
I The Afghan Whigs sono una band con un certo trascorso e ruolo: partendo dall’Ohio, questa terra di nessuno spesso purtroppo apprezzata come la Scozia in Trainspotting, Dulli e soci hanno contribuito a definire il sostrato identitario di un prodotto culturale capace di evocare in pochi tratteggi il disagio dell’essere soggetti senzienti e pensanti alla fine del secolo, lo stesso che poi si è andato riflettendo nel lavoro di gruppi, per citarne alcuni più moderni, come i The National, Interpol e in Italia Afterhours (presentissimo ieri Manuel Agnelli, di cui il frontman della band americana è amico oltre che collaboratore in musica). In breve, gli Afghan hanno dettato le basi dell’analisi delle relazioni tra persone del mondo occidentale, sempre più orientate verso modelli di affettività morbosa e abusiva quanto una dipendenza chimica per cui l’alt-rock grunge arricchito da nuances elettro-distopiche rappresenta una perfetta cornice.
Soprattutto, gli Afghan hanno fatto “storia”: poche formazioni hanno attraversato, con la stessa volontà creativa, al netto delle lunghe pause di silenzio, gli anni 90, tra l’altro sopravvivendoli. La produzione c’è sempre stata, non c’è stato un break-up caotico, ci si è sempre ritrovati e messi a lavorare anche con (ultime) partecipazioni illustri come Mark Lanegan e infatti ieri erano a presentare al pubblico milanese l’ultima fatica How Do You Burn? quasi a confermarci di non essere poi così differenti dal nucleo di un reattore nucleare che costantemente scinde e crea, mantenendo tutto sotto controllo.
C’è da dire che anche il pubblico di ieri è sopravvissuto agli anni 90. Nell’intimo raccoglimento offerto dalla sala teatro della Santeria Toscana 21, una volta varcate le due porte blindate e abbandonate le luci del futuristico SDA Bocconi, si è entrati nel cuore garage di Dulli, e gli ospiti erano invitati speciali della Stonehenge di un rock immortale, duro e puro a partire dai primi due pezzi di inaugurazione sul palco, direttamente dal nuovo lavoro, Jyja e I’ll Make You See God che, uniti nel terzetto di apertura con Matamoros del più vecchio Do The Beast, sono arrivati come una scarica elettrica riattivando le sinapsi dei presenti un po’ addormentate nella pausa dopo l’apertura di Ed Harcourt.
Il resto del live è stato un serrato susseguirsi non-stop (neanche per l’encore) in pura nonchalance di 22 pezzi in 2 ore, eseguiti nell’interezza e rispetto totale della loro forma e rumore: praticamente una dose di Spotify in endovena, o una terapia d’urto a base di nostalgia e schitarrate, anche di ballate, come nella più recente Please Baby Please o nel pezzo-bandiera Algiers, passando da chitarra a piano e viceversa, fino a chiudere accenndando i versi di un’onirica e grattata There Is a Light That Never Goes Out, riprendendo Morrisey e quegli Smiths che più di tutti con la loro crepuscolare amara morbidezza sembrano guidare le analisi umano-grammaticali opera del frontman di Cincinnati. Dell’ultimo lavoro emerge la nota più velatamente moderna e accattivante dall’approccio universale di Catch a Colt e A Line Of Shots (tuttavia non includendo nella set list The Gateway o una perla come la devastante Domino e Jimmy, prima di tutto per l’assenza di Marcy Mays).
Dulli, come pochi frontman di band che hanno avuto un ruolo nel definire un genere o ispirare una qualche forma di aretè in un sempre più confuso mondo musicale, è forte di quel carisma magnetico che si rinforza e brilla quando incontra i propri fedeli, tanto che può dirgli sia di non puntargli il flash quando fanno i video (e qui, per rimanere in tema di 90s, un po’ di boomerismo si è percepito) che di cantare Angie dei Rolling Stones, cogliendoli in flagrante anche a sbagliare i versi, e loro niente, un esercito di soldatini.
Se l’intera formazione all’attivo poteva sembrare statica, non lo è, è ieratica, marmorea, è il palco a essere ingiustificatamente troppo piccolo, all’improvviso sembra di trovarsi a sistemare monumentali statue romane in un bilocale di 40 metri quadri a Porta Romana. Meglio: è un tragico concetto assoluto che sta li per esplodere e tradursi in amletiche dissertazioni sull’uomo di oggi, come in Gentleman o Demon In Profile, passando dalle scariche di chitarre e basso all’intensità del violino e del piano.
Se i The Afghan Whigs appaiono come eroi eschiliani, nella loro lingua parlano i mediocrismi euripidiani che il pubblico che li segue da anni conosce bene, e sa come comportarsi al cospetto degli dèi, con buona pace degli anni ’90.
Clicca qui per vedere le foto dei The Afghan Whigs alla Santeria Toscana (o sfoglia la gallery qui sotto)
THE AFGHAN WHIGS: la scaletta del concerto di Milano
Jyja
I’ll Make you See God
Matamoros
Light as a Feather
Oriole
Toy Automatic
Gentleman
What Jail Is Like
Who Do You Love
Fountain and Fairfax
Algiers
Catch a Colt
I Am Fire
Heaven on their minds
Somethin Hot
Please, Baby, Please
It Kills
Demon In Profile
A Line of Shots
John The Baptist
Summer’s Kiss
Into the floor
There is a light