Articolo di Jennifer Carminati | Foto di Federico Buonanno
Una delle band più influenti della loro generazione e non solo, i The Jesus And Mary Chain celebrano il loro 40° anniversario nel 2024 con un nuovo album, l’ottavo della loro carriera, Glasgow Eyes, e relativo tour mondiale di supporto passato ieri dall’Italia per un’unica data, mercoledì 17 aprile all’Alcatraz di Milano organizzata da Ponderosa Music and Art.
I The Jesus And Mary Chain hanno dato vita allo shoegaze, un nuovo genere musicale che si è sviluppato alla fine degli anni Ottanta nella scena britannica. Un sottogenere del rock alternativo e dell’indie, caratterizzato da una miscela unica di elementi, tra cui voci sognanti e oscurate, effetti e distorsioni di chitarra, suoni ad alto volume e feedback, dal caratteristico suono onirico.

Se qualcuno avesse detto ai due burberi fratelli Reid, Jim e William, che 40 anni dopo Psychocandy, il loro tumultuoso e sovversivo album di debutto, sarebbero stati ancora on the road, lo avrebbero mandato a quel paese.
Lo hanno ammesso anche loro in una recente intervista.
E invece eccolo qui, lo storico gruppo alternative rock scozzese, a regalarci uno show che odora tanto di anni ‘70-‘80 ma decisamente sotto tono: riverberi e chitarre distorte, liriche scandite con noia e un’urgenza evocativa totalmente assente che invece mi sarei aspettata e soprattutto mi sarebbe piaciuto tanto rivedere questa sera sul palco.
Questo è il punto dolente che mi preme mettere subito in chiaro. Ai miei occhi sono apparsi, purtroppo, totalmente privi di entusiasmo, come dovessero fare il loro compitino e stop. Quasi nulla l’interazione col pubblico se non qualche timido ringraziamento sul finale e coinvolgimento pari a zero.
Arrivo al locale di via Valtellina poco dopo le 20 e dopo aver scambiato qualche chiacchiera con i fotografi della serata mi appresto a raggiungere la posizione privilegiata che mi è stata concessa sul terrazzino laterale, e noto con molto piacere che con il passare dei minuti l’Alcatraz non arriverà ad essere sold out ma ci andrà molto vicino.
Ci sono persone di tutte le età, e la cosa non mi sorprende affatto. Così come non mi sorprende vedere al fianco di ragazzini con lo sguardo stralunato a tratti sognante, genitori con gli occhi lucidi in molte occasioni questa sera, in preda alla memorie di un passato che rivive tra le canzoni di questo storico gruppo. Il potere della Musica in grado di colpire al cuore generazioni diverse ma sempre con la stessa intensità, questo è quello che mi porto a casa questa sera, nonostante tutto.
Deathcrash
Ad aprire la serata ci pensano gli inglesi Deathcrash, totalmente incentrati sull’intensità emotiva che trasmettono le loro canzoni, lasciando poi il palco a fine esibizione senza dire una sola parola.

Forse più che un concerto slowcore è stata un’esperienza emotiva condivisa, con brani spesso fatti di lunghe parti solo strumentali in cui è bello lasciarsi coinvolgere in una divagazione di pensieri a cui la nostra mente inevitabilmente ci porta.
Passano dalla calma ad un rumore spiazzante in un attimo, ma forse è proprio questa l’essenza del genere che questi giovani ragazzi ci propongono con passione e genuinità.
Dopo una mezz’ora di brani lenti dall’introspezione dolorosa che si susseguono a momenti di esplosione dalla disperazione angosciante, i Deathcrash, svaniscono nel silenzio da cui sono arrivati.
Perfetto gruppo di apertura a mio parere che ci introduce ottimamente alle atmosfere della serata.
The Jesus And Mary Chain
Sebbene il tour si intitoli The Jesus And Mary Chain: 40 Years, sarà anche l’occasione per ascoltare le canzoni del nuovo album, Glasgow Eyes, registrato proprio nella città natale dei fratelli William e Jim Reid, rispettivamente chitarrista e cantante.

A tutti gli effetti un ritorno alle origini anticipato dal singolo Jamcode, destinato a divenire certamente un altro classico dei Mary Chain, con il quale danno inizio allo show. Sentiamo subito il suono inconfondibile della chitarra di William filtrare attraverso un utilizzo dell’elettronica sempre più incisivo, come ormai i nostri ci hanno abituato.
Sempre da quest’ultimo lavoro in studio ci faranno ascoltare altri quattro brani: Chemical Animal, The Eagles and the Beatles, Pure Poor e Venal Joy, tutti accolti con entusiasmo dal pubblico, quello che però ribadisco, manca totalmente ai musicisti sul palco, che si limitano ad una sterile esecuzione senza coinvolgimento alcuno.

Tutto il resto della scaletta è una bellissima carrellata dei loro più grandi successi, una degna celebrazione della loro carriera segnata da una musica intensa, romantica e a tratti oscura, nella quale il passato, il presente ed il futuro hanno sempre trovato il giusto spazio. La loro musica è a tutti gli effetti un contenitore in cui il tempo si fonde in un’alchimia sorprendente, lasciando sempre grande spazio alla sperimentazione: la psichedelia, tipica dei primi lavori della band, si mescola ad un suono elettronico, con un utilizzo massiccio di sintetizzatori che sfocia spesso nel territorio inesplorato di un jazz meno disciplinato.
Li avevo visti l’anno scorso a teatro e devo ammettere che i suoni non erano stati ottimali, ma questa sera invece sembra tutto perfetto, almeno da questo punto di vista. Tutti gli strumenti dei musicisti praticamente immobili alle spalle di Jim sono udibili distintamente e non si è venuto a creare quel caos di suoni che mi era capitato di sentire in altri contesti.

Una più che pregevole esecuzione di Happy When It Rains viene seguita dal noise-pop incalzante di Head On.
Sono molto silenziosi e statici i fratelli Reid, forse davvero troppo, lasciando spazio alla loro musica è vero, mancando completamente di empatia però, e personalmente non gradisco affatto questo tipo di esibizione.
Un’icona senza tempo di un’epoca turbolenta ormai passata, con il loro suono originale fatto di noise rock, punk, shoegaze, e talvolta sconfinante in melodie più orecchiabili e radiofoniche, questo sono i Mary Chain.
Some Candy Talking ci riporta alle origini del gruppo scozzese, quarant’anni fa, quando i fratelli Reid erano poco più che ragazzini e portavano scompiglio in giro per il mondo distruggendo strumentazioni sui palchi, ma sapevano anche emozionare, con una delicatezza noisy davvero rara.
Blues From a Gun è piena di distorsioni e riverberi, e ci porta alle più elettriche e rockeggianti I Love Rock ‘n’ Roll e poi I Hate Rock ‘n’ Roll: “I hate rock ‘n’ roll / I hate it ‘cause it fucks with my soul”, canta un Jim Reid per nulla coinvolto.
A chiudere il mainset ci pensano due loro grandi classici, Sometimes Always e l’immancabile e dolcissima Just Like Honey, vero e proprio manifesto di un’epoca, eseguite in duetto con la nostra Marta deI Grandi.
Ad aprire l’encore pochi minuti dopo una breve pausa ci pensa l’emozionante Darklands dall’omonimo album che non dovrebbe mancare nelle case di ognuno di noi.

Sempre nella parte finale del concerto trova giustamente spazio Taste of Cindy, tratta anch’essa da Psychocandy, il loro sorprendente album d’esordio che ci viene riproposto come se in questi soli 4 minuti fossero trascorsi in realtà ben 4 decenni.
Come sempre è Reverence, con il suo inarrestabile ritmo quasi tribale nella batteria, a chiudere dopo un’ora e mezza di Musica, quella vera con la M, intensa ed emozionante, una serata che mi rimarrà impressa nella memoria.
Lascio l’Alcatraz pregno di un’atmosfera densa di ricordi e emozioni, in parte insoddisfatta e delusa, con un senso di amaro in bocca, per tutti i motivi che ho già detto e ribadito nel corso del report, ma comunque contenta di esserci stata.
Sono stati definiti da molti gli “alternative rock heroes” e indubbiamente lo sono stati e continueranno ad esserlo negli anni a venire.
Nel mio cuore, però, i The Jesus And Mary Chain restano semplicemente un gruppo che con le loro canzoni hanno scritto pagine indelebili nella storia della musica e popolato molti dei miei cassetti della memoria, che stasera ho riaperto con tanta nostalgia e affetto.
Come tutti i migliori sodalizi, anche la coppia di fratelli Jim e William Reid, ha avuto i suoi alti e bassi, incomprensioni e allontanamenti, ma sono tornati per restare, e questo 2024 promette di essere un anno indimenticabile per i fan del gruppo originario di Glasgow.

Infatti, oltre all’album e al tour, è già pronta un’autobiografia, scritta con il giornalista musicale Ben Thompson, dal titolo “Never Understand: The Story of the Jesus and Mary Chain”. E l’anno potrebbe chiudersi ulteriormente in bellezza con l’uscita di un documentario su una tra le band più influenti di un’intera generazione.
I The Jesus And Mary Chain sono stati spesso definiti dalla stampa come dei disadattati ma a noi fan son sempre sembrati invece dei grandi artisti che fanno da 40 anni la loro musica senza scendere a compromessi con il music business.
Sono perfettamente adattati quindi alla loro realtà musicale e se non è passione e coerenza questa, ditemi voi cos’è.
Clicca qui per vedere le foto di The Jesus and Mary Chain: il racconto e le foto del concerto all’Alcatraz di Milano (o sfoglia la gallery qui sotto).
THE JESUS AND MARY CHAIN – la scaletta del concerto all’Alcatraz di Milano
Jamcod
Happy When It Rains
Head On
Far Gone and Out
All Things Pass
Chemical Animal
The Eagles and the Beatles
Amputation
Cracking Up
Some Candy Talking
In a Hole
Sidewalking
Pure Poor
Blues From a Gun
Nine Million Rainy Days
Venal Joy
I Love Rock ‘n’ Roll
Sometimes Always
Just Like Honey
Encore:
Darklands
Taste of Cindy
I Hate Rock ‘n’ Roll
Reverence

Massimo
18/04/2024 at 22:21
Analasi errata sul modo di presentarsi al pubblico.ricordo che il genere si presta da sempre nel mettere/immaginare una barriera di suoni/effetti,l’impirtante e’ sentirsi “impregnati” dalla musica fino all’ipnosi,che ieri per me e’ avvenuta.probabilmrnte chi scrive non aveva 18 anni nel 1984