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Reportage Live

Tingere di giallo la pioggia. ALICE PHOEBE LOU a Milano e il ritorno dell’età dell’innocenza

L’artista sudafricana ormai adottata con amore dalla scena berlinese in concerto ai Magazzini Generali giovedi 2 novembre ci dice che non c’e’ posto al sole che tenga se non sei pronto a scoprire le tue brutture. E che il busker sound e’ cio’ che serve a questo viaggio.

Foto IG @alicephoebelou @yaitakespics

E luce nel diluvio fu. I Magazzini Generali di Milano, in questo 2 di novembre di disastri climatici e sentimentali, si sono improvvisamente tinti di calore biondo sotto gli sprazzi della sfera stroboscopica. Per compiere questo piccolo miracolo in quella che poteva catalogarsi, senza obiezioni, in una vera e propria giornata di m**** è bastato portare sul palco Alice Phoebe Lou, al secolo Alice Matthew, cantautrice trentenne sudafricana formatasi a forza di busking in terre teutoniche, oggi in tour europeo per presentare la sua ultima fatica in studio, Shelter (2023).

Desideravo da tempo andare a vederla. La storia artistica della Matthew e’ affascinante; in realta’, lo e’ tutto di lei. Figlia di documentaristi, cresciuta sulla punta finale di un continente controverso e, manco a dirlo, affascinante, scopre la sua liberta’ creativa o come liberarsi creativamente compiendo il viaggio opposto di noi europei asfissiati dal capitalismo dei borghi, bramosi invece dell’esotico ancestrale di casa sua. Insomma, lei Caterina va in citta’, noi tutte colonialiste alla Julia Roberts che ci crogioliamo nelle belle speranze riposte in due sudatissime settimane di ferie alla Mangia Prega Ama. Risultato: noi ci stiamo a chiedere perche’, pur avendo campato a the e erbette per piu’ di 10 giorni, non abbiamo ancora incontrato il nostro io interiore (e neanche un bel tipo che ci aiutasse a scoprirlo), lei abbraccia la vita bohémien, scopre che Berlino e’ la sua comune naturale, fa l’artista di strada nelle nostre malsofferte citta’ e in tre anni finisce al SXSW. Noi, Oscar del “30 anni di Gin Tonic e disastri”, lei all’Oscar c’e’ stata candidata per la miglior canzone originale (n.b., per la colonna sonora del documentario su Hedi Lamarr, Bombshell, nel 2017). E adesso non pensate che invece di farvi ri-battezzare nel Gange dovevate andare a raccogliere good vibrations a Capo di Buona Speranza che vi meritate proprio una pernacchia.

Oh Alice, quasi quasi ci sono rimasta male. Non ho potuto concludere la giornata nella lamentosa e irrisolvibile amarezza che solo certi momenti di festa prontamente delusi sin dal loro inizio sanno regalarti. Invece mi sono dovuta ri-convincere che non c’e’ comfort zone piu’ pericolosa dell’autocommiserazione e che basta mettere il naso fuori dal guscio per ricredersi: c’e’ del bello, probabilmente ha le forme di una giovane e radiosa profeta del bedroom pop che Dum Dum Girls scansateve, e anche se non sorriderei nemmeno a un cucciolo di Labrador, non necessariamente devo odiarlo.

Il primo assaggio di questo sciroppo non troppo malvagio me lo danno i Loving, gruppo spalla in arrivo dalla British Columbia; contrariamente alle aspettative, questi canadesoni alti e cortesi sanno cos’e’ il caldo e sanno come metterlo nelle loro canzoni. Se vengo catapultata in un mood vintage, un po’ Beatles e un po’ prom, dall’altra parte la retina della pellicola e’ irrimediabilmente esposta a un sole giallissimo. Gli inglesi usano il termine “sunbeam”, ed e’ lui, quello che si godono le lucertole sui massi o io intorpidita dal calore della sabbia. Ci lascia senza protezione e ci trascina in un’ipnosi che dura cinque pezzi per lasciare il palco poi alla vera attesa. E li’ ricomincia l’ipnosi.

Quando Alice Phoebe Lou arriva sul palco rimani un po’ interdetta. Una ninfetta di eta’ non chiara, uno sguardo, biondo e bellissimo, di eterna bambina; estiva tanto quanto una giornata in campagna nel suo abito lungo un po’ retro’, coperto verso la fine da un felpone grunge, perfetto per i suoi capelli alla Kurt Cobain. La quintessenza dei sogni indicibili di Humbert Humbert, senza la perdita imperdonabile dell’innocenza. Le basta aprire sulle note di Angel ed emerge il dubbio che sia una montatura come quelle che si improvvisano da piccoli ai propri genitori, con le finte voci da grandi: e’ davvero questo scricciolo che canta? Che meraviglia. Seguo compiaciuta il mio udito. C’e’ una Alice Phoebe Lou (ingiustamente) artefatta nelle registrazioni, e ce n’e’ una dirompente e affascinante dal vivo. Ascoltare Dusk ieri sera voleva dire palpare l’eccitazione di pensare che “the world don’t matter/When we’re looking at each other”.

L’effetto straniamento non ferma i miei pensieri dall’immedesimarmi in quello che e’ il concerto di un enfant prodige, un po’ dramatic, come si dice lei, fermamente impacciata nel accordare le sue canzoni e non smettere di ripetere che no, non si perdonera’ mai di aver visto il suo ultimo concerto a Milano, terminato proprio all’inizio a causa di un (altro) diluvio universale, piu’ che altro perche’ lei era presa a benissimo e stava tranquillamente cantando sotto la pioggia. Ma alla campionessa del piu’ fenomenale e sognato cantautorato indie-blues DIY concediamo questo e altro, anche perche struttura per bene la sua performance. Tre momenti precisi: una parte iniziale, fatta delle sue hit piu’ delicate come Touch, Glow e Hammer; una pausa a solo, lei e le sue chitarre, senza la sua infaticabile band, durante la quale spicca una Something Holy che e’, per chi non la conoscesse, una delle piu’ emotivamente precise rappresentazioni di un rapporto (“Imagining you naked in front of me/Nothing to hide just someone to hold”). Conclude con i brani piu’ rock (Witches, Lose My Head) dove emerge la sua essenza di artista si’ di strada ma con una classe che presuppone un ascolto colto, sensibile, impegnato. La nostra eroina canta, ringrazia i suoi artisti, il pubblico, balla pure, guardandosi i piedi, con la stessa traballante incoscienza dei bambini in festa e che noi genitori ancora allucinati dal miracolo della vita guardiamo con infinita amorevolezza.

La Matthew non smette di ricordare una Mac DeMarco bionda e ugualmente scherzosa, ma con un timbro vocale che sa d’altri tempi. E’ Last Night In Soho, non Cape Town. Non ero preparata a questo: a vedere qualcuno cantare con il sorriso sulla faccia dal primo all’ultimo pezzo. Una gioia vera, anche se non perfettamente allineata al blu di alcuni pezzi, di chi ci crede sempre e che persino nel vedere andare tutto a rotoli trova una via di fuga. How To Get Out Of Love, suonata in intimita’ a rivalsa dell’annacquata data passata, e’ un’appassionata lettera di affrancamento da un amore che non va piu’ e siccome dobbiamo farcene una ragione, ci facciamo dire tutto, ci spogliamo nudi e brutti manco fossimo in un dramma di Yasmin Reza diretto da Polanski. Eppure Alice sta li, intensa e sorridente, un raggio di sole, in una giornata ora un po’ meno tremenda. Sara’ che a volte sbagliamo a voler catalogare tutto nero o bianco, brutto o buono, e che il buono vive nei dettagli di cio’ che ignoriamo, che non guardiamo abbastanza bene, non salutiamo mail il sole come dovremmo davvero farlo, ne’ pratichiamo l’arte della gentilezza con la maturita’ dell’abnegazione. Dovremmo, ecco, fare il giro del mondo all’incontrario, per arrivare ad apprezzare 24 ore di insofferenza.

ALICE PHOEBE LOU – La scaletta del concerto di Milano

Angel

Touch

Dusk

Open My Door

Silly

Glow

Shelter

Hammer

Halo

How To Get Out Of Love

Something Holy

Lover // Over The Moon

Lately

Child’s Play

Underworld

Lose My Head

Witches

Dirty Mouth

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Dall’Adriatico centrale (quello forte e gentile), trapiantata a Milano passando per anni di casa spirituale, a Roma. Di giorno mi occupo di relazioni e istituzioni, la sera dormo poco, nel frattempo ascolto un sacco di musica. Da fan scatenata della trasparenza a tutti i costi, ho accettato da tempo il fatto di essere prolissa, chiacchierona e soprattutto una pessima interprete della sintassi italiana. Se potessi sposerei Bill Murray.

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