Articolo di Marzia Picciano | Foto di Federico Buonanno
Non avrei mai pensato che alla fine della classica orribile settimana (dalla durata secolare), coronata dall’esplosione dell’estate a Milano (e quindi di tutte le allergie da polline possibili), dello stress e delle infinite incomprensioni umane, un concerto di Vasco Brondi potesse essere effettivamente quello di cui avevo bisogno. Il perchè alla base del mio scettiscismo nei confronti delle doti terapeutiche o sciamane del nostro eroe born in Verona ma made in Ferrara e Bologna è presto detto: contrariamente al placet diffuso della critica, a me, Un Segno Di Vita, la sua ultima fatica, non è sembrato al livello, almeno poeticamente parlando, dei lavori passati (Incendio è una Cara Catastrofe con un plot twist che ammicca al tormento da radio). Ebbene, nonostante ció, questa sera del 14 aprile ai Magazzini Generali il buon Brondi mi ha dimostrato che nel passare dalla padella dell’indie rock alla brace dell’ampio consenso di pubblico (leggi: sold out) forse è meglio bruciare per bene piuttosto che abbrustolirsi piano piano. In tutti i sensi.
Partiamo dal presupposto che avevo parecchia voglia di piangere e insomma, la serata prometteva bene per le mie nevrosi. Aprono una versione ridotta dei Non Voglio Che Clara, band che a mio umile avviso è in grado di regalare oggi, nel panorama di cantautori in cerca di tormentatissimi sè stessi, una sana dose di malinconica e ponderata introspezione, tra l’altro, sempre made in Veneto, quasi a testimoniare che laddove la borghesia nasca e cresca insieme alle sue fabbrichette sia in grado di generare un insensato numero di umanità dotata di disagio esistenziale – ma è dai tempi di Marx che abbiamo a che fare con le evidenze delle esternalità negative del possesso dei mezzi di produzione, di che ci stupiamo?
Chiuso l’antipasto in bellezza con lo spleen trattenuto di Cary Grant, si prepara ed entra Vasco Brondi con la sua band (ovvero, Andrea Faccioli e Riccardo Onori alle chitarre, Clara Rigoletti alle tastiere e al violino, Niccolò Fornabaio alla batteria e Carlo Maria Troller al basso) e la sua personalità e soprattutto, le sue canzoni.
Del resto, quello che possiamo dire di Brondi è che ha costruito una fama, un riconoscimento (non solo dal pubblico, ma da tutti quelli che l’hanno promosso a enfant prodige della musica italiana di contenuto, vale da dire De Gregori, Canali, Agnelli e anche un ammaliato Jovanotti), un marchio quasi, sulla sua capacità di incastrare parole come pochi artisti che si cimentano, ancora, con la lingua italiana.
I suoi sono concerti pregni, densi di parole, di costrutti dai sentimenti epici o profondamente sconfortanti (come non si rimane toccati dall’immaginario dietro “saremo come dei dirigibili nei tuoi temporali inconsolabili”?) inanellati in una sorta di poesia parlata che ti tiene attaccato. Un interminabile enjambement di cui vuoi assolutamente vedere la fine, al verso successivo. Ecco, questo trascinarsi di immagini tra strofa e strofa ha determinato il successo di Vasco Brondi, o meglio, de Le Luci Della Centrale Elettrica prima e poi di lui con il suo nome di battesimo (anche se alla fine, confessa con poca ironia sul palco, da solo ci è rimasto per sfiga, mentre cercava di costruire una band). O almeno, ha determinato il suo successo nel mio cuore di ascoltatrice famelica di canzoni che parlino di me (già i continui riferimenti all’Adriatico fomentano la mia immedesimazione) e della mia disperazione.
Proprio per questo non dovrei soprendermi affatto del sollievo assolutorio che mettermi li, tra me e me, ad ascoltare Brondi dopo una mezza crisi d’ansia nel mezzo di un’altra crisi esistenziale di una domenica di cambi di stagione (chi non lo è, quando cambiano drammaticamente le temperature?). Basta che dopo Illumina Tutto parta quella celebrazione della nostalgia del disastro che è Le Ragazze Stanno Bene per sciogliermi, e farmi capire quanto gli ultimi sforzi di Vasco Brondi vadano in una continuità diremmo di semplificazione di un messaggio che ha sempre professato, e che oggi si staglia con chiarezza sulle ombre di questi tempi incerti. Se in Qui ci diceva che “è un super potere essere vulnerabili” oggi ci conferma che troveremo un pó di buona sorte insieme alla fame, alla sete e alle chitarre distorte proprio da questa presa di coscienza. E scomoda anche i CCCP, quando ricorda la valutazione del loro tempo, quale eccellente per tutte le grazie e disgrazie che lo caratterizzavano: eccellente è anche il tempo di oggi, così buio e per questo perfetto per “viverlo fiduciosamente“, abbracciarlo e schiarirlo. Certo, probabilmente ci troviamo agli albori di una nuova guerra mondiale che non ci appartiene e subiamo assonnati come le partenze all’alba, ma possiamo cominciare anche dai nostri personalissimi conflitti interiori. E abbracciarli.
Perchè non c’è niente di più difficile non tanto ad affrontare le proprie oscurità o i propri grigi, quanto a dichiararli al prossimo, a farli parte di noi e del nostro biglietto da visita per i clienti della nostra buona disposizione alla socialità o più banalmente, del nostro cuore. Non lo facciamo perchè esporci è un rischio enorme, ci espone a raid di curiosità che non siamo in grado di spiegare, alla fine il buio è rassicurante quando contenuto. Del resto, il vaso di Pandora finchè è rimasto chiuso non ha fatto danni, e il mito ci insegna che la curiosità non aiuta – d’altra parte il mito non ci dice come risolvere il problema di gestire una scatola di digrazie pronta a implodere alla prima incertezza. E come ci insegna Macbeth Nella Nebbia a volte è una fortuna nascere in luoghi in cui non succede niente perchè ci si prepara meglio allo sconvolgimento.
Se ci penso, solo nell’ultima fase della mia esistenza sono passata da chi mi ha scaricato perchè troppo vulnerabile, a chi mi ha ribadito che darmi della debole fosse uno dei migliori complimenti da ricevere, a chi insiste per vedere la mia parte più fragile per capirci un pó di più della sottoscritta. Non dovrei scomodarmi ad aggiungere che il primo dei casi era (ironia della sorte) un detrattore di Vasco Brondi, ma la circostanza serve così bene il mio storytelling che sarebbe un peccato non coglierla. E ribadirmi l’insegnamento: mai fare come chi non ha abbastanza sicurezza di mostrarsi nella propria incertezza, di esercitare un dubbio costruttivo o di indagare il suo animo come farebbero Dalla e De Gregori cantando Cosa Sarà? (ovvero, la cover della serata).
E per dirla tutta, mi sento anche di fidarmi di un Vasco Brondi decisamente preso a bene, che salta sul palco nel suo completo nero e cappello a falda larga e declama versi (inclusi quelli di Erri De Luca ma non di Franco Fortini che hanno ispirato quel pezzo simbolo del disfattismo delle generazioni figlie del capitalismo senza via d’uscita, I Destini Generali) con la gravità di chi ti vuole far capire che questa non è la serata compagnona, se canti conosci e prendi coscienza delle parole che Brondi ti mette in bocca, le sputi facendole tue insieme a tutta la malinconica disperazione che ti porti dentro (tipo me, se ce l’hai), anche quando scende nel parterre per concludere quasi con una danza purificatrice di Nel Profondo Veneto, a fomentare i cori nella loro sincera condivisione.
E lì mi sono fatta un bel piantino, libero, senza ansie di essere vista o meno. Che domani è gia lunedi e toccherà trattenere le lacrime (chissà se si piange anche alla Design Week?). Ma con la consapevolezza di essere un filino più avanti nella strada che ci porta a essere più liberi dai nostri mali.
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VASCO BRONDI – La scaletta del concerto di Milano
Illumina tutto
Le ragazze stanno bene
Meccanismi
Qui
Fuoco dentro
Incendio
La Terra, l’Emilia, la Luna
Fuori città
40 km
Cara catastrofe
Macbeth nella nebbia
Quando tornerai dall’estero
I Sonic Youth
Cosa sarà (Lucio Dalla cover)
I destini generali (Seguita dalla poesia Dopo di Erri De Luca)
Chakra
Encore:
Per combattere l’acne
Piromani
Mistica
Encore 2:
A forma di fulmine
Un segno di vita
Nel profondo Veneto